Il 16 gennaio le commissioni riunite Affari costituzionali e Trasporti della Camera dei deputati hanno ascoltato in audizione alcune organizzazioni non governative che si occupano di migranti, richiedenti asilo e rifugiati.

Il tema era quello del decreto legge 1/2023 che, attraverso le modifiche al decreto legge 130/2020, aggiunge nuovi requisiti per consentire alle navi delle ong di ricerca e soccorso in mare.

In passato le autorità italiane erano solite dare istruzioni alle navi di soccorso, spesso dopo estenuanti attese, di sbarcare le persone soccorse nei porti dell'Italia meridionale e in particolare in Sicilia. Questa è stata a lungo considerata una scelta naturale e ovvia, in considerazione dell'obbligo per l'Italia di sollevare i comandanti dalle loro responsabilità «con la minima ulteriore deviazione dal viaggio previsto per la nave», in ottemperanza alla Convenzione internazionale sulla salvaguardia della vita umana in mare, e «non appena possibile«, in ottemperanza alle linee guida per il trattamento delle persone salvate in mare dell’organizzazione marittima internazionale.

Prassi ad hoc

Tuttavia, dalla fine del 2022, il governo italiano ha iniziato a dare istruzioni alle navi delle ong di sbarcare le persone nei porti del centro e del nord Italia. Nello stesso periodo, le navi della Guardia costiera e della Guardia di finanza hanno continuato a ricevere istruzioni per lo sbarco in Sicilia e Calabria. Pertanto, la nuova prassi sembrerebbe applicarsi solo alle navi delle ong.

La combinazione di alcune disposizioni del decreto legge 1/2023 e la nuova prassi di prevedere porti di sbarco molto distanti dal luogo di salvataggio pongono evidentemente in ulteriore rischio la tutela dei diritti delle persone soccorse in mare e di quelle impegnate nei salvataggi. Vediamo come.

L'obbligo di procedere allo sbarco immediatamente dopo ogni operazione di salvataggio (requisiti [c] e [d] del decreto), combinato con la previsione di luoghi sicuri che si trovano a diversi giorni di navigazione dalla posizione in cui è stato effettuato il salvataggio, hanno come risultato quello di costringere le navi di soccorso - con a bordo persone già in situazione di vulnerabilità - a trascorrere una parte significativa del loro tempo di impiego nei trasferimenti, piuttosto che nelle aree del Mediterraneo centrale dove è statisticamente più probabile che avvengano naufragi.

In assenza, come noto, di uno sforzo statale Italiano ed europeo per pattugliare quelle aree con mezzi navali pronti a intervenire in caso di pericolo, l'allontanamento forzato delle navi di soccorso delle ong aumenta significativamente il rischio di perdita di vite umane in mare. Inoltre, le nuove misure non possono essere giustificate dalla presunta necessità di garantire una più equa distribuzione delle persone in Italia.

Ciò è ancora più evidente se si considera che questo obiettivo può essere facilmente raggiunto con mezzi meno invasivi e rischiosi – come trasferimenti via terra – che negli anni passati hanno permesso di distribuire i nuovi arrivati. 

Le responsabilità del comandante

C’è poi l’imposizione di responsabilità eccessive o ingiustificate al comandante della nave (requisito [b] del decreto). Se le indagini di base da parte del comandante sulle persone soccorse possono essere necessarie e appropriate, tuttavia quest’ultimo non dovrebbe essere incaricato di valutare le richieste di asilo e dovrebbe invece concentrarsi sulla consegna delle persone soccorse in un luogo sicuro il prima possibile e senza ritardi inutili, come stabilito nelle linee guida per il trattamento delle persone salvate in mare dell’Organizzazione marittima internazionale.

Infine, vengono reiterati obblighi già esistenti (requisito [a] del decreto) come quello di operare in conformità con le autorizzazioni e le certificazioni delle autorità competenti, che potrebbe essere visto semplicemente come pleonastico.

In realtà, tali reiterazioni, accompagnate da sanzioni aggiuntive, discriminano negativamente le navi di soccorso delle ong. Il rischio, evidente, è che il governo utilizzi i requisiti imposti dal decreto legge per giustificare sanzione, stigmatizzazione e criminalizzazione di persone e organizzazioni che effettuano salvataggi del tutto legittimi.

A tal proposito, è bene ricordare che ostacolare il lavoro dei difensori dei diritti umani, quali sono i soccorritori delle ong in quanto forniscono assistenza salvavita, può mettere uno stato nelle condizioni di violare i suoi obblighi di protezione del diritto alla vita, codificato in diversi strumenti internazionali, in particolare nell'articolo 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e nell'articolo 2 della Convenzione europea sui diritti umani. Inoltre, come sottolineato dalla Commissione europea, «la criminalizzazione delle ong o di qualsiasi altro attore non statale che effettua operazioni di ricerca e salvataggio in mare, pur rispettando il quadro giuridico pertinente, equivale a una violazione del diritto internazionale e pertanto non è consentita dal diritto dell'Unione europea».

Per queste buone ragioni, sarebbe importante che il parlamento non approvasse il decreto e che il governo non emanasse ulteriori provvedimenti osteggianti la solidarietà e dismettesse la nuova politica dei "porti lontani". 

© Riproduzione riservata