Questo tempo ci fa paura perché è tempo di trasformazione, o di transizione, se preferite. Da dove, lo sappiamo; verso dove, difficile prevederlo. Ma non passa giorno che non ce ne sia segnale.

Tra i più recenti, la decisione della Corte suprema sul non diritto ad abortire. Decisione attesa, ma sorprende il modo in cui ne siamo venuti a conoscenza: una fuga di notizie, chiaramente opera di una precisa regia. Per influenzare le elezioni di metà termine; o per far ripiegare i giudici conservatori a più miti consigli, chissà.

In ogni caso, la tensione si taglia a fette. Da mesi qualcuno evoca un clima da guerra civile. Il paragone spaventa, ma non va dimenticato che la guerra civile fu l’esito di una tensione più o meno carsica lunga quasi cinquant’anni.

E se le motivazioni di allora furono essenzialmente economiche (la schiavitù, lungi da ragioni umanitarie, era solo fattore di produzione a costo zero), ora le motivazioni sembrano ideologiche, il che irrigidisce di più il tutto. (“Sembrano”: perché anche la battaglia sull’aborto ha i suoi bei profili economici, ovviamente).

Dall’altra parte dell’Atlantico, l’Europa non conosceva dagli anni Novanta una divisione così qualitativamente significativa come quella attuale. Qualche leader rilancia progetti federali, ma ogni disegno di federalizzazione funziona solo se le parti condividono lo stesso modello costituzionale. E allora come la mettiamo con le cosiddette democrazie illiberali che ci ritroviamo in casa? Che sempre illiberali restano, anche se si risvegliano campioni di accoglienza (che è sempre tanto utile se poi chiedi soldi all’Ue).

Senza dimenticare la guerra in Ucraina, naturalmente. Ci siamo troppo immersi per riuscire a prevedere come cambierà il quadro geopolitico dell’Europa, e del mondo. Certo è che cambierà, e radicalmente. Già i primi segnali si vedono.

Austria e Finlandia scalpitano per chiuderla con la neutralità. La Svizzera ancora no: l’adesione alle sanzioni alla Russia non è senza precedenti; ma anche lì il dibattito pubblico sulla Nato comincia a esserci, e intanto il governo accelera sulla richiesta di un seggio al Consiglio di sicurezza Onu. Per non parlare della Germania che si riarma, archiviando un tabù che dura dalla fine della guerra.

Il ruolo della chiesa

Se restava una certezza – la diplomazia del Vaticano – anche quella vacilla. A questo giro non ci sono né John Fitzgerald Kennedy né Nikita Krusciov, ma neanche Francesco è Giovanni XXIII. Pur in buona fede, Bergoglio rischia di essere prigioniero di quella che è la nota dominante del suo pontificato.

In Argentina, coinvolto in una faccenda giudiziaria, ascolta una parte e: «Ha ragione, ha ragione»; poi ascolta l’altra parte, e ancora: «Ha ragione»; e quando il segretario gli fa notare che la cosa è rimasta irrisolta: «In effetti ha ragione anche lei». Un aneddoto forse costruito ad arte, ma che coglie bene nel segno.

Certo, la diplomazia vaticana potrebbe funzionare anche senza (o nonostante) il papa, ma il sospetto è che quella diplomazia sia un po’ sfibrata da nove anni di un pontefice che forse non sempre l’ha trattata con i guanti.

D’altra parte, ad essere in crisi è proprio il cattolicesimo romano, nella forme che ha conosciuto degli ultimi due secoli. Come, in fondo, è in crisi lo stato, come forma di organizzazione del potere politico dal Seicento in avanti. E le due crisi non sono poi così disconnesse. Solo che noi siamo ancora uomini di Wesfalia, e non riusciamo a pensare la sola possibilità di qualcosa di diverso.

Tutto questo magmatico mutare, su più fronti, ci spaventa. Ed è giusto che spaventi, perché non ne conosciamo gli esiti, né, in fondo, tutti i metodi. Il punto su cui riflettere, però, forse è un altro.

Giovanni Bognetti, uno dei più importati studiosi del costituzionalismo americano, in un suo lavoro degli anni Novanta, scriveva: «Il compito dell’uomo, in qualsiasi congiuntura si trovi, è quello di far avanzare, per quanto possibile, nelle concrete circostanze del momento, qualche valore di civiltà».

Eccola, allora, la domanda da farci sul serio: in questa transizione, quale valore di civiltà intendiamo portare avanti con noi? Forse la scelta giusta sarebbe quella di far avanzare la democrazia, che non è un valore, è questa la cosa bella: ma una condizione perché ci siano valori.

Sarebbe bello se almeno su questo fossimo tutti d’accordo, senza barattare la democrazia con la pancia piena, tanto i bambini crescono comunque felici anche nelle dittature. Perché se crescono felici forse è perché non sono figli di ebrei, di dissidenti politici, di zingari o gay. La cosa bella della democrazia, invece, è che, almeno per statuto, possono crescere felici i figli proprio di tutti.

© Riproduzione riservata