Prendo spunto dall’interessante intervento di Sonia Ricci, per intervenire su un tema che sta molto a cuore alla Coldiretti, quello che impropriamente viene chiamato della “carne sintetica”. Perché impropriamente? Perché nella realtà il richiamo alla “carne sintetica” costituisce solo la parte di un tutto assai più ampio che va dalla marea montante dei cibi cosiddetti “ultra processati”, investe il latte, i formaggi nella loro straordinaria articolazione, le uova e i loro derivati, il pesce e infine tocca la “carne”.

Parlare in modo esclusivo di “carne sintetica o carne da laboratorio o carne artificiale” è come – se mi è permessa la metafora – parlare delle tecniche avanzate di doping professionistico, trascurando sia tutte le modalità e le forme di integrazione che implementano la performance sportiva, che le centinaia di migliaia di atleti giovani che aspirano al professionismo e le altre centinaia di migliaia di dilettanti e spesso dopo lavoristi. È in quell’alveo che fiorisce il mercato diffuso del doping del meta-doping ed e lì che ci sono i “soldi”.

I rischi

Per capire cosa sta accadendo con il cibo sintetico, bisogna quindi in primo luogo assumere una visione ampia che consideri da un lato il grande eco-sistema italiano ed europeo del cibo – non già quindi «uno sgabuzzino gastronomico» ma il più  potente, sicuro e capillare modello di produzione agricola e di trasformazione esistente al mondo – dall’altro la tendenza in atto a livello mondiale a forme di concentrazione della produzione sempre più marcata (oltre il 70 per cento del cibo prodotto al mondo è riconducibile a sole dieci multinazionali che ne controllano il mercato).

Da un lato quindi una pluralità estesa di aziende, contadini, produttori agricoli, dall’altra una serie di potenti aggregati in grado di investire nel cibo-commodity e di determinare bisogni e modalità di consumo.

Un dato quest’ultimo che, ad esempio, assumendo la frequentazione dei fast food come luogo di eccellenza di consumo dei cibi ultra-processati fa si che la percentuale di popolazione italiana che va almeno una volta alla settimana in un fast food sia pari al 14 per cento, quella tedesca  al 20 per cento, quella spagnola al 24 per cento, quella francese al 27 per cento per salire al 38 per cento in Gran Bretagna, toccare il 50 per cento in Australia e raggiungere il 58 per cento negli Stati Uniti.

I cibi ultra processati

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La nostra contrarietà al cibo ultra-processato non è l’esito di un processo ideologico o il riflesso di una deriva oscurantista ma trova origine nella dinamica stessa di generazione di questo tipo di alimenti in cui sapore, forma e consistenza desiderati vengono raggiunti attraverso un numero elevato di processi di trasformazione e con il contributo abnorme (in media fra i 20 ed i 35) di ingredienti che non albergano in nessuna delle nostre cucine (coloranti, emulsionanti, acidificanti, dolcificanti, nitrati, nitriti e cosi via).

Ciò a sua volta – e sono moltissimi i ricercatori e le istituzioni sanitarie ad evidenziarlo – va a costituire il principale driver di fenomeni di malnutrizione e delle malattie croniche connesse, a tutte le latitudini del globo. Senza tralasciare il rischio di mortalità associato al consumo elevato di questi prodotti ultra-processati che cresce del 62 per cento rispetto a modelli nutrizionali sani.

Cibo ultra-processato e sicurezza dei consumatori appaiono quindi strettamente correlati e finalmente possiamo arrivare alla carne sintetica. Cos’è infatti la carne sintetica e i vari cibi da laboratorio cui abbiamo fatto riferimento, se non lo stadio ultimo la sublimazione dell’ultra-trasformazione, in cui il processo stesso di produzione si fa materia prima?

Il processo in laboratorio

Vediamo come nasce “la carne pulita”: si parte dal prelievo di strisce di fibra muscolare dall’animale, che vengono alimentate e fatte crescere in un bio-reattore. Le cellule devono essere seminate su stampi e sviluppate in vitro, grazie al contributo di siero fetale bovino (che funge da brodo di crescita), prelevato penetrando il cuore di feti ancora vivi. Le fibre così cresciute vengono poi assemblate e grazie alle tecniche dell’ultra-trasformazione e tradotte in bistecche, hamburgers, etc.

Questi sono gli elementi ad oggi certi. Nulla si sa sull’impatto di lunga durata di questi composti cellulari sull’organismo umano, nulla in relazione al loro contenuto nutritivo. L’unica cosa che possiamo dare per certa è che parliamo ancora di teoria perché ad oggi non esistono studi di valutazione diretta dei rischi associati alla crescita in vitro della carne artificiale e il lavoro delle agenzie regolatorie si sta basando per lo più su risultati forniti direttamente dall’industria. Nulla si sa, inoltre, del rischio di assunzione sistemica del mix di prodotti chimici utilizzati per realizzarla.

Quanto all’impatto sulle emissioni e sulla sostenibilità – chiavi che nella narrazione della carne sintetica ne costituiscono la principale motivazione d’acquisto – regna la stessa opacità: l’impronta idrica sarebbe pari a quelle dei migliori allevamenti (intensivi o meno).  

Quella relativa alle emissioni appare ancor più controversa: le emissioni degli animali e in particolare dei ruminanti (prevalentemente metano) restano nell’atmosfera per circa 12 anni;  quelle dei bio-reattori, che utilizzano molta energia, sono di anidride carbonica (CO2) e restano in atmosfera per circa mille anni.

Le emissioni

Forse a questo riguardo –  più che alle narrazioni delle multinazionali ­ ­– serve guardare ancora una volta all’Italia e all’Europa: se la media delle emissioni unitarie fosse in tutto il mondo uguali a quelle europee le emissioni globali del settore registrerebbero una riduzione di circa il 30 per cento.

Possiamo far meglio, ne sono certo, ma è bene prima di immaginare percorsi trans-umani, che gli altri facciano quanto abbiamo fatto noi. Mentre infatti negli ultimi 30 anni l’Europa segna una sensibile riduzione delle emissioni agricole (-18,5 per cento) altri paesi peggiorano, con il Brasile +47 per cento, la Cina +9,7 per cento e gli Usa +6,2 per cento. Quest’ultimi tre paesi da soli coprono il 27 per cento delle emissioni agricole globali.

E chiudo, senza alcuno spunto polemico, su ciò che Sonia Ricci ha definito «retorica sovranista».  Devo ammettere che talvolta ho anch’io la sensazione di un clima in cui, per quanto riguarda il cibo e l’agricoltura, sfioriamo un registro leggermente retorico. 

Partiamo dal cibo sintetico: non c’è alcuna forza politica che non abbia votato il nostro manifesto! Andiamo un po’ più indietro, alle etichettatura obbligatoria sull’origine: tutti furono d’accordo, forze di governo e di opposizione! Pensiamo al nostro “No” agli ogm, quasi vent’anni fa: d’accordo tutti ancora una volta, e molto convintamente! 

Sono un inguaribile ottimista e allora penso che forse di fronte a quel gigantesco asset economico, sociale, identitario rappresentato dal cibo in Italia, tutti smettono di scherzare, tutti mettono da parte contrapposizioni più o meno sterili e riconoscono le ragioni profonde del paese.

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