Che cosa succede a una “Repubblica fondata sul lavoro” se proprio il lavoro non è più così al centro della nostra esistenza? La domanda sembra formulata apposta per soddisfare le utopie dei fannulloni, ma in realtà è uno scenario nel quale abbiamo possibilità concrete di ritrovarci, e non certo per amore dell’indolenza.

La settimana corta, guardata con interesse da mezza Europa, la revisione del reddito di cittadinanza, gli allarmi sulle figure professionali messe a rischio dalle intelligenze artificiali e i contrasti sul salario minimo sono tutti segnali di un’evoluzione epocale che non riguarderà solo il mercato del lavoro, ma il suo significato all’interno della nostra cultura civica.

Al centro del dibattito

Al centro del cambiamento c’è un processo tecnologico ormai irreversibile, caposaldo di un’economia dove il lavoratore è sempre meno indispensabile. Il dibattito divide chi paventa un futuro pericolosamente dominato dalla tecnica, a scapito di un’umanità privata di un suo carattere essenziale, e chi, invece, coglie in questo processo una potenzialità evolutiva per la nostra specie, superando l’idea che il destino dell’uomo sia quello di intervenire solo là dove la tecnica non può arrivare.

Se in un futuro prossimo, le macchine saranno in grado di realizzare sostanzialmente qualsiasi cosa, l’uomo potrà finalmente svincolarsi da esse per dedicarsi a ciò che esula dalle prerogative della tecnica.

Senza tecnofobia

Un cambiamento che dobbiamo vivere senza tecnofobia, come spiega il filosofo Maurizio Ferraris, ricordandoci che le macchine non possono sostituire l’uomo nel consumo, né nella facoltà di provare emozioni. Una macchina non ha la volontà per prendere decisioni, non prova stanchezza, desiderio o noia. Produce, ma non fruisce della sua opera. Possiamo programmarla per scrivere, impaginare e stampare un libro. Ma la scelta di goderne della lettura o di usarlo per fare bella mostra di sé in libreria è tutta nostra.

A patto che la tecnologia sappia occuparsi anche della distribuzione equa delle risorse che immette sul mercato, per la prima volta nella storia l’uomo potrebbe avere le capacità per liberarsi dall’incombenza di essere anzitutto produttore e concentrarsi sui suoi sogni. Tuttavia, mano mano che le settimane lavorative si accorciano, gli interrogativi sul nostro costrutto sociale sono destinati ad aumentare: come gestiremo tutto questo tempo libero? Sapremo accettare, senza crisi identitarie e sensi di colpa, che il consumo non sia pura dissipazione di risorse o accumulazione di beni, bensì uno spendere qualitativamente la propria esistenza?

La cultura del lavoro

È chiaro che in questi termini il problema è, prima di tutto, culturale. Dopo 10mila anni di civiltà basata sul lavoro, al punto che, per secoli, la dignità dell’individuo è stata misurata in base alla sua professione, l’idea che l’uomo non sia più faber ma consumer è totalmente inedita. Per accettarla non basta uscire dalla logica della produttività: occorre sviluppare un’educazione alla libertà del consumo, un’etica che renderà possibile concepire uno spazio di dignità e cittadinanza oltre l’occupazione produttiva.

Se si libera l’uomo solo dal lavoro, ma non dalla “cultura del lavoro”, si rischia di produrre consumatori frustrati, a cui la privazione di una qualifica toglie anche l’identità, persone che continueranno ad essere desiderose di dedicarsi a mansioni di cui non vi è più bisogno. È un’emergenza di cui si sentono le prime avvisaglie anche tra chi, pur godendo di un relativo benessere, si sente privo di scopo perché fuori dal mercato.

Il ruolo della politica

La politica può giocare un ruolo importante in questo futuro, interrogandosi non più solo sulla capacità produttiva dell’individuo, ma sulla qualità del tempo che potrà dedicare ai suoi desideri e alla sua comunità.

Se riuscirà a governare questo cambiamento, forse un giorno la nostra Costituzione potrebbe recitare una frase persino più bella di quella attuale: «L’Italia è una Repubblica fondata sul vivere».

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