Di recente sono usciti due libri. Uno l’ha scritto l’impronunciabile genio ungherese Lászlo Krasznahorkai: s’intitola Herscht 07769 e racconta l’attacco al potere di una bizzarra brigata neonazista in uno sperduto paesino della Turingia. Il protagonista, il melanconico Florian Herscht, non ne è però troppo turbato, impegnato com’è a scrivere lettere indirizzate al governo tedesco per annunciare un’altra imprecisabile apocalisse (climatica? nucleare? virale? non lo sappiamo).

Nel frattempo, anche la natura manifesta segnali inquietanti: si alza un vento funesto e velenoso; dalle campagne arrivano branchi di lupi. Il paese (l’immaginaria città di Kana) viene preso nella morsa di forze oscure che vengono sia dalla storia che dalla biologia.

Il secondo libro l’ha scritto Dave Eggers, e s’intitola The Every. Infinitamente più cool, più comico, più in commedia (Eggers è americano), racconta l’interno di una fantasiosa azienda del big tech, Every, dietro cui si può leggere senza sforzo uno qualsiasi dei colossi della Silicon Valley, da Apple a Microsoft, da Amazon a Meta.

Attraverso gli occhi della protagonista Delaney, assistiamo al tentativo di Every di acquisire un monopolio sull’intera esperienza individuale e sociale dei suoi utenti, estendendo i propri strumenti a sempre maggiori segmenti dell’agire umano: in un immaginario futuro prossimo (così plausibile che non riusciamo a definirlo distopico), i dispositivi Every vengono ormai usati per fare rating sugli esseri umani, per vigilare sulla salute propria e altrui, per votare alle elezioni e compiere una vera e propria sorveglianza etica. Un Grande Fratello non più cupamente orwelliano ma colorato e liberal, californiano e pop: il volto sorridente di un nuovo tecnoregime.

Diversi fascismi

Cosa tiene insieme due romanzi così apparentementi diversi? Credo questo: entrambi i romanzi parlano di fascismo. Entrambi offrono infatti un’ipotesi su una diversa configurazione del potere. Uno mette in scena un’energia conservatrice e tradizionalista, un fascismo che viene dal passato. L’altro ha la forma di un padrone che non ha più in mano manganelli ma fasci di algoritmi: un capitalismo della sorveglianza tecnocratico ed egemonico. Abbiamo insomma da un lato un veterofascismo nero, e dall’altro un tecnofascismo arcobaleno. Diversi in tutto tranne che in una cosa: un uso spregiudicato e asimmetrico della forza.

Jonathan Littell, nel suo capolavoro Le Benevole così fa dire al suo protagonista, l’ufficiale nazista Maximilien Aue: «La distruzione per mano nostra del popolo di Mosè non scaturiva unicamente da un odio irrazionale verso gli ebrei ma derivava soprattutto da un’accettazione risoluta e ragionata del ricorso alla violenza per la soluzione dei più svariati problemi sociali, nella qual cosa, del resto, ci differenziavamo dai bolscevichi solo per le rispettive valutazioni delle categorie di problemi da risolvere: il loro approccio era fondato su uno schema di interpretazione sociale orizzontale (le classi), il nostro verticale (le razze), ma entrambi altrettanto deterministici e tali da condurre a soluzioni analoghe in termini del rimedio da adottare».

Se proviamo a prenderla da questo punto di vista, non solo capiamo cosa accomuna i due libri, ma ne caviamo una definizione più efficace e meno novecentesca di cosa forse è davvero il “fascismo” oggi: non appena una bandiera con un certo simbolo, ma «un’accettazione risoluta e ragionata del ricorso alla violenza per la soluzione dei problemi».

Liberi dalla libertà

Large hand holding smart phone with play button in front of audience (Ikon Images via AP Images)

E allora, così com’è sicuramente fascismo la brigata neonazista che assalta un sindacato e organizza azioni brutali per difendere la musica di Bach, è fascismo uguale e superiore quello dei trust informatici californiani che, usando la forza economica con la stessa spregiudicatezza con cui nel Novecento si è usata la forza militare, ridefiniscono brutalmente il mercato del lavoro in termini schiavistici e mortificano l’idea stessa di libertà individuale. Un fascismo certo più ambiguo, più originale, ma mille volte superiore al primo per potenza di mezzi.

Questo ovviamente non lo dico io. A scriverlo è lo stesso Dave Eggers: «Il mondo sta intraprendendo uno spostamento verso l’autoritarismo, ed è una questione che ha tutto a che vedere con l’ordine. La gente pensa che il mondo sia fuori controllo. Vogliono qualcuno che fermi tutti i cambiamenti che ci sono. Alimentare la voglia di controllo, ridurre le sfumature, categorizzare, assegnare numeri a qualunque cosa abbia un minimo di complessità. Semplificare. Dirci come andrà.

Anche i regimi autoritari promettono queste cose. (…) Per i giovani soldati delle SS, il nazismo era stato una liberazione. Volevano che gli si dicesse cosa dovevano fare. Erano stati liberati dalla libertà. Le scelte illimitate del mondo finalmente aveva cominciato a farle qualcuno al posto loro. Era stato promesso ordine».

Alla luce del sole

Tanto è facile vedere (e quindi punire) la violenza in una formazione politica che la pone apertamente a bandiera, quanto più complesso sarà lo sforzo di vederla dove essa si occulta: nel capitalismo sfrenato, nell’ansia di monetizzazione indifferenziata, nella disparità di classe, nella speculazione immobiliare che sta rendendo inavvicinabili le grandi città europee, riportandole agli inferni babelici e malsani che erano all’inizio della rivoluzione industriale.

Gli attori di questa mutazione non sono così oscuri, non stanno al centro di complotti e buie congiure: hanno nomi, cognomi, uffici e loghi ben precisi. Semplicemente, i loro simboli non sono quelli che fanno gridare all’allarme. E tuttavia dovrebbero.

Qualcosa si sta formando, nelle città e nelle province, qualcosa di violento e profondo, di geneticamente nuovo, antico come i lupi che avanzano nel romanzo di Krasznahorkai, ma moderno come gli algoritmi di Eggers. Forze ambigue e diverse, che con forse troppa pigrizia chiamiamo progresso. È piuttosto qualcosa che somiglia a un regime, e di cui non riusciamo a parlare, di cui non abbiamo ancora imparato a leggere le liturgie.

L’indifferenza della politica

E allora descrivere il fascismo non sarà tanto andare a stanare quattro dementi con la maglietta di Mussolini, ma trovare quei punti della nostra società dove si stanno scatenando i rapporti di forza più violenti: nelle speculazioni finanziarie, energetiche e immobiliari, nella dignità del mercato del lavoro, nelle relazioni personali, nelle idee di istruzione e cultura, nelle concezioni della persona. Andare a caccia dei nuovi fascismi, nelle forme di oggi e non di ieri: che si tratti di quello triviale e perturbante di Krasznahorkai o di quello bambinesco e tecnocratico di Eggers.

Che certe necessarie indagini sul potere vengano oggi quasi esclusivamente dalla letteratura, è una notizia che farà magari piacere a chi, come me, crede ancora che la letteratura non sia l’intrattenimento delle anime belle ma un luogo di perturbazioni collettive.

Tuttavia, l’assenza pressoché totale della politica su questi ambiti è a dir poco inquietante. Non esiste, nel nostro intero arco parlamentare, un partito che abbia una posizione precisa su quale debba essere il ruolo di Amazon o di Meta all’interno dei nostri mercati e dei nostri regolamenti. Ciononostante, quegli stessi soggetti non fermano il loro progetto, ed è la loro idea di società che avanza, e non un’altra. Ed è colpa nostra se consideriamo questo processo naturale e inevitabile. La storia, mi pare, l’ha sempre dimostrato: nessun fascismo è mai un destino.

© Riproduzione riservata