Quando pensiamo alla violenza di genere pensiamo anzitutto al femminicidio e alla violenza sessuale, all’assalto diretto e brutale sul corpo. All’annientamento. Ma sappiamo che la violenza assume molte altre forme, e lo diciamo anche, sebbene i fenomeni siano così onnipresenti e abbiano proporzioni così vaste da risultare talvolta paradossalmente sfuggenti. L’essere umano si abitua ai paesaggi, si sa.

Un tipo di violenza talmente sistemica da incarnarsi in molteplici forme, forme che spesso non riusciamo neppure a collegare subito fra loro, è la violenza del lavoro e sul lavoro. Dico “del” lavoro (non solo “sul” lavoro) perché anche il lavoro in sé può assumere per le persone i contorni della violenza. Il lavoro può essere schiavitù, nei casi estremi oggettiva, nei casi meno estremi in quanto forma di sofferenza, frustrazione, mortificazione. E come sempre, se c’è una vessazione, questa assumerà per le donne una forma tutta particolare, che si aggiunge alla forma generale. Le donne hanno spesso la “versione rosa” della sfiga che si aggiunge alla sfiga generale.

Ambiguità intrinseca

Il lavoro è un terreno umano di grande ambiguità. Il lavoro per le donne, ci piace dirlo, è indipendenza, è importante che le donne lavorino, è importante che non stiano a casa a fare la calza. L’autonomia! Questa parola, pur usata con ottime intenzioni, tende ad avere un retrogusto giudicante: in fondo, se fai la casalinga, se non lavori, se non hai un progetto tuo e solo tuo di qualche genere, ecco, in fondo sei un po’ colpevole. Mettiamo un attimo da parte chi, davvero per scelta, in piena libertà, e potendoselo permettere, sceglie di non lavorare. Mettiamo da parte, insomma, i problemi inesistenti, e occupiamoci dei problemi reali. Se non viviamo in una torre d’avorio, sappiamo che ci sono molte ragioni per cui tante donne anche nei paesi avanzati non lavorano.

Una serie di pressioni culturali, quel restare un passo indietro rispetto all’uomo (e qui non si può non pensare a quei femminicidi nati dalla frustrazione di un ragazzo che non accetta che lei vada più veloce di lui). Ma anche questioni pratiche, che però se scavi sono culturali pure loro: tutto ciò che discende dall’idea che la donna debba occuparsi prima di tutto della casa, dei figli e degli anziani bisognosi di assistenza. Ovviamente se lo stato non fornisce strutture e sostegni la donna magari sceglierà di non lavorare. A questo si aggiunge un mercato del lavoro che per le femmine non è sempre quella terra delle opportunità. Discriminazioni salariali, sessismo nelle promozioni, ambienti lavorativi (non tutti, ma ancora troppi) sgradevoli nei vari modi che siamo tutti in grado di immaginare. Le aziende oggi si attrezzano per creare le pari opportunità (va di moda l’azienda responsabile), ma questo dà fastidio a molti.

Noto ultimamente, a livello di aneddoto personale, alcuni ragazzetti neolaureati, figli di conoscenti, che si lamentano sottovoce perché «al giorno d’oggi se sei maschio bianco eterosessuale sei discriminato nelle assunzioni». No comment. Come dico spesso: le quote rosa sono quel meccanismo per cui si cerca di avere almeno il 20-30 per cento di donne in un ambiente professionale, le quote azzurre sono quel meccanismo per cui da millenni si ha quasi il 100 per cento degli uomini ovunque. Capisco sia difficile cedere il potere, quando nel dna porti la certezza di una poltrona pronta per te. Per fortuna, lo dico senza ironia, esistono anche gli uomini intelligenti, anzi colgo l’occasione di dire loro di farsi sentire negli ambienti di lavoro dove osservano discriminazioni.

Schiavitù moderne

Chiudo con una nota su un tema che meriterebbe un trattato: la schiavitù moderna. Perché la schiavitù non è un fatto storico, ma è presente oggi nei contesti più poveri.
Essere obbligati a lavorare sotto la minaccia di violenze e ritorsioni, essere di proprietà di qualcuno, subire abusi fisici sul lavoro, essere disumanizzati, trattati come oggetti sostituibili, vendibili. Lavori forzati, prostituzione forzata, matrimoni obbligati.

Ecco, la schiavitù moderna riguarda naturalmente molti uomini, ma non stupisce che le donne siano comunque la maggioranza delle vittime. Con punte di quasi totalità se ci occupiamo di sfruttamento sessuale. Cosa dicono gli esperti di diritti umani? Anche qui parlano di necessità di un cambiamento culturale. Ne beneficerebbero tutti.

Come sempre, più ci avviciniamo alla povertà, più riusciamo a osservare un fenomeno nella sua pienezza. Guadagniamo diottrie.

Questo articolo è parte di #unite, una campagna di azione letteraria a cui hanno aderito più di 60 scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.

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