Quando la mafia ha esportato sé stessa e le sue bombe in Italia tutto è diventato più confuso e complicato.

Per la prima volta, trent’anni fa, la mafia ha manifestato fuori dall’isola il suo volto bestiale senza la mediazione di un potere siciliano che ormai non c’era più o che non serviva più. Che l’abbia fatto per decisione autonoma è molto improbabile nonostante il delirio di onnipotenza di Totò Riina, un incrocio ben riuscito fra un capocosca e uno psicopatico, ma la narrazione di un “un uomo solo”, cattivo, sanguinario, pazzo, assetato di sangue è sempre stata apprezzata dai più e ben considerata da un certo pensiero che, negli ultimi tempi, ha preso il predominio su ipotesi e sospetti che portano da tutt’altra parte.

Rassicura l’idea che la mafia, solo la mafia, abbia lasciato le impronte digitali sulle stragi in Continente fra il 1993 e il 1994. Nessuno sopra o sotto o accanto, mandanti esterni solo nella bramosia di qualche inquirente e nella fantasia dei soliti giornalisti alla ricerca eterna del complotto.

I cattivi pagano il conto

Ma, guardando alla storia del nostro paese, è spontaneo chiedersi: dov’è allora la notizia, dov’è la novità? In Italia è andata sempre così. I cattivi e gli assetati di sangue, alla fine, pagano il conto che devono pagare per sé e pure per gli altri.

È capitato anche quasi un secolo e mezzo fa quando per evidenti moventi politici uccisero il marchese Emanuele Notarbartolo, ex sindaco di Palermo e direttore del Banco di Sicilia, accoltellato il 1 febbraio del 1893 sulla carrozza di un treno. I primi mandati a giudizio furono due ferrovieri, presenti al momento dell’omicidio e quindi correi degli assassini.

Poi fu il turno dei mafiosi, tali Matteo Filippello e Giuseppe Fontana. Istruttorie, inchieste processi, persino un’autorizzazione a procedere contro il deputato della Destra storica Raffaele Palizzolo. Primo grado, secondo grado, Cassazione e l’assoluzione definitiva dell’onorevole Palizzolo, accolto al porto di Palermo da un popolo che gridava «viva la giustizia» e «viva l’onorevole Palizzolo».

Viva la giustizia che nella nostra Italia contemporanea in trent’anni non è riuscita a trovare un solo colpevole – che non sia un accolito di Totò Riina – per la strage dei Georgofili a Firenze, per le morti di cinque uomini in via Palestro a Milano, per l’esplosivo che ha danneggiato la basilica di San Giovanni in Laterano a Roma.

È capitato anche con Falcone. È capitato anche con Borsellino.

Corleonesi, brutta razza, capaci di indescrivibili nefandezze ma incapaci di uccidere «almeno cento carabinieri» in un attentato che sarebbe dovuto avvenire il 23 gennaio del 1994 allo stadio Olimpico (per il malfunzionamento di un telecomando, dicono) o di sbriciolare la Torre di Pisa come qualcuno avrebbe voluto. Colpi e colpetti per far “ragionare” il governo e il presidente del consiglio del tempo Carlo Azeglio Ciampi.

Teorie farneticanti?

Sono stati loro, e solo loro, a mettere in ginocchio il paese, a rivendicare le esplosioni con la sigla della Falange armata, a provocare il black out a palazzo Chigi, a seminare terrore per costringere alla resa l’Italia. Da una parte la mafia, dall’altro lo stato. Poi lo stato ha vinto e tutto è finito lì.

Resta solo il fastidio di un’inchiesta giudiziaria ancora aperta contro qualcuno che, dal 1994, è stato capo del governo per quattro volte. È un’inchiesta infinita, che di stagione in stagione si arricchisce di vicende e personaggi che ruotano intorno alla figura di Silvio Berlusconi e della sua corte, intorno alle coincidenza degli attentati che finiscono con la sua famosa “discesa in campo”, intorno alle relazioni fra il suo amico Marcello Dell’Utri e la crema di Cosa nostra. Teorie farneticanti? Congetture fondate su pregiudizio politico?

Quest’inchiesta di Firenze è come una fisarmonica che si apre e si chiude di continuo. Personalmente dubito che verrà mai provato il ben minimo coinvolgimento di Berlusconi nelle stragi del biennio 1993/1994. Forse dovremmo capovolgere la prospettiva, cercando di dimostrare l’esatto contrario: Berlusconi non solo non ha nulla a che fare con quegli attentati ma Berlusconi, entrando in politica, quegli attentati li ha fermati. Era un premier che tranquillizzava il mondo del sottosuolo.

Grazie alla sua reputazione da piduista, grazie ai suoi antichi rapporti con i Bontate e i Teresi e i Di Carlo, grazie ai consigli preziosi e interessati del suo amico Marcello. Così sarebbe tutto meno confuso, così potremmo fare un piccolo passo verso la comprensione del tragico biennio 1993-1994.

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