“Perché l’insicurezza è un grande problema dei nostri tempi” è il titolo di un articolo di Letizia Pezzali pubblicato di recente su Domani. È vero, l’insicurezza è un problema, ed è persino un problema crescente, come mostrano i dati degli ultimi anni sulla sicurezza economica della gran parte della popolazione europea e statunitense, e in particolare italiana.

L’insicurezza è diventata un grave problema perché fa sentire le persone esposte a una serie di minacce su cui, individualmente, non hanno alcun controllo. E questo le paralizza, le fa diventare più passive.

Nouriel Roubini, l’economista che predisse la crisi economica globale del 2008 quando invece le aspettative prevalenti erano ottimistiche, elenca dieci minacce che ci potrebbero portare nel prossimo futuro alla Grande Catastrofe, come titola il suo recentissimo libro. Sono tutte minacce sistemiche, su cui la singola persona può fare davvero poco. Si va dalle crisi finanziarie alla stagflazione, dalla crisi climatica all’intelligenza artificiale, dalla de-globalizzazione alle guerre.

Le minacce economiche diventano minacce sociali, come quando recessioni e disuguaglianze portano conflitti sociali. E viceversa, minacce sociali diventano minacce economiche, come quando il crollo demografico rende insostenibile il pagamento delle pensioni. Non stupisce quindi se l’insicurezza da dimensione individuale ha assunto una dimensione sociale.

Tutto questo però suona un po’ paradossale. Infatti, le minacce ci sono sempre state, sia quotidiane, come le malattie un tempo incurabili, sia ricorrenti, come le carestie, mentre oggi ci siamo dotati di una tecnologia formidabile, ed abbiamo costruito una rete di protezione sociale, per quanto diseguale e piena di difetti. Questo dovrebbe farci sentire più al sicuro. Perché dunque c’è questo paradosso?

La risposta più ovvia spiega il persistere dell’insicurezza sistemica con il persistere della difesa prioritaria degli interessi di parte, come gli interessi di classe, delle nazioni, di gruppi etnici, con la conseguenza di intralciare un coordinamento ed una collaborazione che porterebbero benefici a tutti.

Basta pensare a quanto sia difficile costruire un’Europa più unita, e quindi più autorevole nel mondo, o quanto sia difficile far pagare sempre le tasse dovute, la qual cosa consentirebbe di rafforzare la protezione sociale di tutti. La difficoltà è rinunciare a qualche particolare beneficio oggi per un maggior benessere generale domani.

Ebbene, ciò che è progressivamente cambiato negli ultimi 15/20 anni è proprio l’orizzonte con cui guardiamo al futuro che si è drammaticamente ravvicinato. La finanza, che tipicamente specula con un orizzonte temporale brevissimo, si è globalizzata, con l’effetto di dominare l’economia reale e di condizionare la politica economica dei governi.

Le imprese hanno rivolto sempre più attenzione alla massimizzazione degli utili di breve termine. I partiti populisti, che rispondono ai bisogni immediati di specifiche sezioni di popolazione, si sono moltiplicati e rafforzati nei paesi occidentali. Ma se anche osserviamo le famiglie, vediamo che sono sempre meno propense a pianificare il loro futuro.

Lo stesso fenomeno di focalizzazione sul presente è chiaramente osservabile nella nostra vita di tutti i giorni, perché così indotti da un progresso tecnologico lasciato in mano al mercato.

È vero che progresso tecnologico e mercato ci hanno portato nel corso di decenni a uscire dalla povertà e a non temere terribili malattie, ma recentemente sono entrati nella nostra vita personale più intima. Nuovi prodotti e servizi di mercato stimolano, ad un ritmo sempre più veloce, nuovi bisogni prettamente individuali. E la dimensione sociale ci costringe a tenere il passo.

Emblematico è il bisogno di impiegare tutti ritagli di tempo libero guardando il mondo attraverso i nostri piccoli schermi, ciascuno guardando il suo. L’esito è di aumentare l’individualismo e il paragone sociale, di sostituire la competizione dove prima c’era la collaborazione, di non attrezzarsi adeguatamente per il futuro. L’esito è di farci sentire più passivi e più soli; e la solitudine è esattamente il fattore di malessere su cui pochi giorni fa la massima autorità sanitaria statunitense, Vivek Murthy, ha lanciato l’allarme.

Ma competizione sociale e solitudine non possono che alimentare insicurezza e impotenza.

 

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