Iniziano a delinearsi i programmi elettorali delle principali forze politiche che in questa campagna elettorale breve ed estiva dovrebbe fare chiarezza ed aiutarci a scegliere. Per deformazione professionale, perché è un tema conosciuto con esperienza diretta, la voce università è quella che valuto con maggiore attenzione.

Non credo che vi sia alcun dubbio che un sistema universitario in salute sia necessario per la vita democratica, economica e culturale di una società avanzata. Quando paragoniamo l'Italia ad altri paesi europei considerati come i più progrediti, le differenze sull'università sono evidenti.

Eppure, l'università è un argomento tabù, affrontato molto poco rispetto alla sua rilevanza strategica per il paese. Solitamente, ci limita a due appelli generici, quello delle maggiori risorse intesi come più borse di studio e supporto al diritto allo studio e più docenti.

Nessuno entra nel merito del funzionamento dell'università, della sua qualità nel formare che è strettamente legata alla sua capacità di fare ricerca. Si pensa all'università come se fosse un’altra scuola superiore, un errore enorme.

I problemi dell'università italiani sono molti: dall'eccessiva burocratizzazione delle attività, agli stipendi tra più bassi d'Europa, all'estrema rigidità legislativa nell'introdurre nuovi corsi di laurea (si pensi alle cosiddette classi di laurea), alla costrizione degli atenei di acquistare materiale di ricerca altamente specializzato come se fossero matite e carta per stampanti, per fare qualche esempio.

Il problema dell'università italiana è grave perché è duale. È un problema di quantità, poche risorse, pochi laureati, poche borse di studio e così via. Ed è anche un problema di qualità, cioè di rendere le università attraenti e competitive per fare ricerca di alto livello e quindi per poter insegnare contenuti di qualità agli studenti.

Un'università italiana che è lentissima nel fare le cose paga poco e in maniera non meritocratica i propri docenti e personale amministrativo, non riesce a costruire o mantenere infrastrutture di ricerca come fanno gli altri atenei europei, offrirebbe ben poco anche se fossimo in grado di triplicare le borse di studio o i docenti.

Nella maggior parte dei casi, la politica italiana ha una immagine dell'università di trenta o quaranta anni fa. Crede ancora che laurea sia il punto di arrivo, quando spesso è solo l'inizio.

Crede ancora che i docenti universitari italiani siano dei privilegiati quando hanno condizioni lavorative di gran lunga peggiori dei loro colleghi tedeschi, olandesi, francesi, danesi, e così via e per questa ragione molti giovani ricercatore emigrano all'estero e pochissimi ritornano in Italia.

Siamo i maggiori esportatori di cervelli in Europa, regaliamo risorse ai sistemi universitari di altri paesi, un danno incalcolabile.

Il modello per gestire l'università italiana è sempre stato quello del compromesso al ribasso sulla qualità. Ci si stupisce che nei ranking mondiali, per quanto limitati come strumenti, pochi atenei italiani siano presenti ma come stupirsi che una persona che mangia poco, senza scarpe e malconcio non corra i cento metri come Marcel Jacobs.

Al momento, i programmi politici che sono stati resi pubblici non affrontano queste criticità, sono molto deludenti.

Anche le forze politiche che, a parole, mostrano una maggiore attenzione al tema si sono limitate ai soliti slogan vuoti ed inefficaci. L’università potrebbe essere uno dei grandi temi bipartisan per il futuro del nostro paese, ma al momento non è neanche seriamente in agenda.

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