Stamane sarà l’università di Sassari a tributargli l’omaggio accademico, quella laurea che Enrico Berlinguer non aveva conseguito perché il carcere, la lotta antifascista e una scelta di campo e di vita avevano deciso così. Avverrà nel centenario della nascita alla presenza del capo dello stato, della famiglia, dei pochi che lo hanno conosciuto di persona e dei molti che lo hanno scoperto nel tempo, anche molto dopo che lui non c’era più.

Su Berlinguer c’è un pensiero di Mario Tronti che quella curiosità spiega come meglio non si può, «Si conoscono bene solo gli uomini che non sono niente di diverso da quello che appaiono. Per chi possiede un di più di vita interiore la comprensione è lenta, lunga, e soprattutto postuma». Ho un solo ricordo dell’uomo visto da vicino,
era nel piccolo bar annesso alla federazione triestina del PCI-KPI (lassù siamo orgogliosamente bilingui) e lui era seduto a un tavolino di fianco a Rafael Alberti, il poeta salito a Trieste per i funerali di Vittorio Vidali, il comandante Carlos del V Reggimento nella guerra civile spagnola.

Era il novembre del 1983, Rafael Alberti aveva compiuto da poco ottant’anni, i capelli bianchi lunghi quasi alle spalle, Berlinguer di anni ne aveva venti di meno, minuto nel fisico e gravato dal peso di un carisma che oggi mal si concilierebbe con la sua sobrietà di modi e linguaggio. Non ero il solo a osservarli, avevano addosso lo sguardo discreto di chi era lì e sapeva che da quel loro segretario erano derivate tutte le scelte e le parole più importanti dell’ultimo decennio.

I tre articoli su Rinascita dopo il golpe cileno a motivare la via del compromesso storico, la democrazia come valore universale (che detto dal podio del congresso del Pcus non era propriamente una banalità), il sentirsi più sicuri sotto l’ombrello atlantico che non altrove, la linea della solidarietà nazionale coincisa coi giorni della tragedia di Aldo Moro e l’assalto brigatista al cuore dello Stato, l’esaurirsi della spinta propulsiva delle società sorte sull’onda del 1917, l’alternativa democratica dopo il 1980 e la lotta per il disarmo contro i missili a Comiso, le aperture ai movimenti, il sorgere di un ambientalismo consapevole, il pensiero femminista, l’incalzare (spesso per merito di altri) delle tematiche sui diritti civili e della persona.

A scorrere i titoli, solamente i titoli, si ha la percezione di quanto complessa sia stata quella vita e quella biografia, eppure la strategia politica del segretario Berlinguer è stata una, unica: approssimare il più possibile il suo partito all’esercizio di una responsabilità nel governo del paese. E non c’è dubbio che dopo la rottura del 1947 lui sia stato il leader più capace di avvicinarsi a quel traguardo.

Avvicinarsi però, non oltrepassarlo perché le ragioni che si opponevano a quell’approdo si sono rivelate ostacoli altissimi, disposti talvolta a qualunque mezzo e soluzione pure di bloccare in quella stagione una vera, possibile, transizione all’alternanza. In questo limite, però, è vissuta anche la coerenza dell’uomo Berlinguer, nel non avere mai rinunciato «agli ideali della mia gioventù» come avrebbe detto a Giovanni Minoli in una delle ultime interviste, il che voleva dire una cosa tutto sommato semplice.

Enrico Berlinguer è stato sempre e sempre è rimasto un comunista italiano. Dove l’aggettivo non è dettaglio, ma sostanza. Quella matrice divenuta identità ne ha scortato l’esistenza e contrassegnato l’eredità. Rammentarlo in questa ricorrenza ad alcuni potrà apparire superfluo. Nel mio piccolo mi pare il modo più giusto di ripensare a chi ci ha fatto scoprire che la politica può riempire degnamente una vita.

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