Chissà se nel 1985, adottando il finale della Nona Sinfonia di Beethoven come inno di un intero continente, l’Unione europea aveva previsto anche la sua vocazione alla sostenibilità. Nella sua funzione istituzionale il brano è solo musicale, ma il testo originale invita «ad abbeverarsi al seno della natura», un verso che sembra andare incontro agli ultimi provvedimenti presi sulla transizione ecologica. Certo il fulcro del poema esorta all’unione dei popoli: «Abbracciatevi moltitudini!». Su questo, magari, c’è ancora del lavoro da fare.

Protezione e costruzione

Come ogni istituzione, l’Europa porta avanti contestualmente due funzioni: la protezione della comunità e la costruzione di una visione che possa indirizzarne il futuro. Riguardo alla prima, gli ultimi anni di sfide complesse, dal Covid alla guerra in Ucraina, hanno dimostrato un’efficacia, seppur altalenante, nel farsi carico delle emergenze.

Tuttavia, il recente scetticismo riguardo al nuovo regolamento sulle auto elettriche è l’ultimo esempio di una persistente difficoltà nella relazione con i cittadini in termini di comprensione e condivisione delle scelte.

La funzione “costruttiva” sembra ancora più in crisi: l’ennesima tensione tra i capi di governo ci ricorda che i vertici Europei sono distanti dal condividere collettivamente una visione sul futuro dell’Unione. Sarebbe dunque comprensibile se i cittadini Europei si chiedessero non tanto se le decisioni prese siano quelle giuste, quanto se a prenderle sia l’istituzione giusta.

L’intenzionalità collettiva

Per capire meglio questo sconcerto, può essere utile rileggere la Costruzione della realtà sociale di John Searle. Nell’analizzare come vengono costruite le istituzioni, Searle identifica come elemento cruciale quella che chiama “intenzionalità collettiva”. È un tipo di condivisione che fa scattare in noi quel senso del fare, volere, credere qualcosa insieme. L’intima consapevolezza che il nostro ruolo e le nostre azioni siano in relazione diretta gli uni con le altre. La creazione di un senso unitario che porta le nostre intenzionalità individuali a convergere.

Ma l’Europa dei 27 è ancora in grado di esprimere un’intenzionalità collettiva? Oggi che lo sforzo nel creare un progetto comune sembra insufficiente, a mancare pare proprio essere la chiarezza su quale “forma” debba avere l’Unione, con la conseguenza che la funzione delle sue istituzioni è diventata confusa e controversa. Niente di strano, quindi, che a prevalere sia l’individualità dei singoli Stati e che i politici tornino ad avere come referenti non gli obbiettivi di una visione condivisa ma gli interessi esclusivi dei propri elettori.

Se vogliamo continuare a suonare la Nona di Beethoven, dobbiamo ricordarci che abbiamo bisogno di un’orchestra sinfonica, non di una musica di sottofondo o di grandi jazzisti capaci di assoli strepitosi ai confini dell’armonia. L’esecuzione riesce solo se è collettiva, a partire da una partitura condivisa, dove nessun strumento può mettersi in evidenza, se non quando richiesto, perché ogni dissonanza inficerebbe l’intera opera.

Un’orchestra così non si crea facilmente. C’è bisogno di un processo di conversazione pubblica tra cittadini e istituzioni per concordare “cosa suonare”. Un buon inizio sarebbe stato il percorso che avrebbe dovuto portare alla creazione di una costituzione europea e dovremmo riflettere a fondo sulle ragioni per cui, dopo averlo abbandonato nel 2007, quel dialogo non sia mai più ripreso. Magari non avrebbe portato a una carta costituzionale, ma sarebbe stato utile a creare quell’intenzionalità collettiva di cui oggi abbiamo così bisogno.

Il prossimo parlamento europeo, che eleggeremo nel 2024 e sarà probabilmente molto diverso dall’attuale, dovrà cogliere questa sfida, altrimenti il prossimo inno sarà una sfrenata sessione di free jazz, in cui le parole del testo originale non conteranno davvero nulla.

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