Vedremo se e quando si fermerà la "mani pulite" europea e soprattutto quali siano state le responsabilità effettive delle persone coinvolte. Nel frattempo è però interessante vedere come il Parlamento europeo sta reagendo all’ondata di scandalo sollevata dal cosiddetto Qatargate.

La prima, coraggiosa, risoluzione adottata dalla plenaria il 15 dicembre scorso prevedeva, oltre all’istituzione di una commissione d'inchiesta, l’istituzione anche di una commissione speciale incaricata di individuare «potenziali carenze nelle norme del Parlamento europeo in materia di trasparenza, integrità e corruzione».

Raccomandava inoltre la creazione di un organismo etico indipendente e chiedeva una valutazione approfondita e un miglioramento della «leggibilità delle attività legislative dei deputati, in particolare rendendo note le impronte legislative dei testi e degli emendamenti proposti».

Purtroppo, a meno di due mesi dal voto, di queste proposte sembra si sia già perso l’eco. La conferenza dei presidenti dei gruppi politici, su proposta di Roberta Metsola, presidente dell’Europarlamento, si è infatti concentrata più su misure di carattere organizzativo che strutturale, e la cui efficacia é ancora tutta da dimostrare.

Secondo echi di stampa non vi saranno quindi nuove commissioni speciali ma, eventualmente, una parziale riconversione del mandato della commissione temporanea che già esiste sulle “influenze esterne”, mentre già da prima dello scandalo il Ppe aveva frenato l’istituzione dell’organismo etico indipendente.

Soprattutto, almeno per ora, non é prevista nessuna iniziativa in vista sulla trasparenza del processo legislativo che pure è probabilmente il vero oggetto del desiderio dei lobbisti, così come niente é previsto sulla tracciabilità degli emendamenti proposti dai singoli deputati.

Eppure, molti al parlamento europeo ricordano ancora il caso del sito Internet “Lobbyplag” che una decina di anni fa in occasione della revisione delle norme europee in materia di protezione dei dati aveva messo a confronto diverse centinaia di emendamenti degli eurodeputati con le proposte di Digital Europe, della American Chamber of Commerce, di Amazon e di altri lobbisti.

Ora, la ragione dello scandalo, ripreso anche dalla stampa internazionale, non era stata tanto la forte pressione delle lobby quanto il fatto che i deputati presentatori degli emendamenti non avessero citato la fonte.

La tracciabilità delle leggi

Ci si potrebbe quindi chiedere se non sia il caso per il Parlamento europeo di prendere come esempio il Congresso Usa dove, di regola, non si fa mistero delle fonti di pressione e di finanziamenti.

E che i soldi circolino a Bruxelles, come a Washington, non è un mistero se vogliamo credere ai dati diffusi da Corporate Europe secondo cui ogni anno GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft) spendono a Bruxelles oltre 26 milioni di euro, probabilmente non solo per feste di beneficenza.

Fare luce su questi flussi finanziari dovrebbe essere la prima preoccupazione del Parlamento europeo nell’interesse tanto della trasparenza che degli elettori. Mi sbaglierò, ma la corruzione all’interno di una assemblea legislativa non si combatte tanto obbligando i rappresentanti degli interessi a indossare un badge particolare nei corridoi del parlamento, quanto piuttosto facendo luce sulle fasi tuttora “opache” del processo legislativo dell’Unione europea.

Questo processo è di assoluto rilievo tanto sul profilo qualitativo che quantitativo. Per averne un’idea basti ricordare che alla data del 20 dicembre scorso erano pendenti 185 procedure legislative che spaziavano dalla tutela dell’ambiente, all’inquadramento dell’intelligenza artificiale e alla riforma delle politiche agricole, energetiche, di immigrazione e di asilo.

Su tutte queste misure il parlamento europeo può incidere in modo determinante e, nonostante il luogo comune che lo considera poco più di un talking shop, può essere molto più determinante di un parlamento nazionale. Seguire i negoziati legislativi è quindi di fondamentale importanza, anche perché per un cittadino rimettere in discussione una norma europea una volta adottata è un vero percorso di guerra.

Per questa ragione il Trattato prevede diverse norme intese a favorire il dialogo con la società civile e la “democrazia participativa” in base alla quale il cittadino può seguire il processo decisionale e offrire il proprio contributo per migliorarne i contenuti.

Questo in teoria: nella pratica vi sono però ancora oggi due fasi della formazione della legislazione europea che restano opache per i cittadini mentre sono probabilmente accessibili ai lobbisti.

La prima è quella dei negoziati che si svolgono all’interno dei 150 gruppi di lavoro del Consiglio dove i rappresentanti degli stati membri cercano di difendere al meglio gli interessi del proprio paese cercando di limitare al massimo le modifiche alla legislazione nazionale.

Ora, nonostante il trattato preveda che i dibattiti legislativi debbano essere pubblici tanto in Parlamento che in Consiglio, in quest’ultima istituzione la fase più interessante avviene invece sottotraccia come in un fiume carsico.

Solo quando viene raggiunto un compromesso fra le delegazioni nazionali il testo concordato diventa accessibile, ma il cittadino non saprà mai se il frutto del compromesso è dovuto, per esempio, più alle pressioni della Germania che all’arrendevolezza dell’Italia.

Stiamo parlando di oltre un migliaio di testi all’anno (marcati con il codice WK) che sfuggono alla stampa, ai cittadini, a molti parlamenti nazionali e allo stesso Parlamento europeo che, incredibilmente, continua ad accettare questa situazione.

La sentenza De Capitani

Una recentissima sentenza della Corte di giustizia Ue ha dichiarato che anche i dibattiti nei gruppi di lavoro del Consiglio debbano essere accessibili in quanto «in un sistema fondato sul principio della legittimità democratica, i colegislatori devono rispondere dei loro atti nei confronti del pubblico.

L’esercizio da parte dei cittadini dei loro diritti democratici presuppone la possibilità di seguire in dettaglio il processo decisionale all’interno delle istituzioni partecipando alle procedure legislative e di avere accesso a tutte le informazioni pertinenti». Cambierà, dopo questa sentenza, la situazione in Consiglio? Vedremo, ma non sarebbe male che lo stesso parlamento Ue pretendesse dai gruppi di lavoro dell’altro co-legislatore la stessa trasparenza che caratterizza i lavori delle commissioni parlamentari.

La seconda zona opaca é quella dei negoziati interistituzionali (“Triloghi”) nel corso dei quali i due co-legislatori, parlamento e Consiglio, dopo avere raggiunto una maggioranza al proprio interno cercano di concordare un testo comune. Per economia di tempo e di procedura la maggior parte di questi negoziati si svolge già nel corso della prima fase dell’esame parlamentare di una proposta legislativa.

Fatto positivo: sono spesso coronati da successo anche se le riunioni del trilogo possono essere più di una decina e l’intero processo può prendere mesi e in certi casi più di un’anno. Una volta raggiunto l’accordo però il testo concordato viene messo ai voti e approvato dalla plenaria senza emendamenti.

E i cittadini? Vedono giusto il treno entrare nel tunnel e uscirne chilometri dopo ignorando le date delle riunioni, i contenuti discussi, gli emendamenti e soprattutto la posizione dei negoziatori. Anche qui la Corte ha condannato nel 2018 la prassi seguita dal parlamento europeo di non dare accesso ai documenti dibattuti durante i triloghi. A seguito della sentenza i documenti possono ora essere ottenuti ma solo su richiesta e dopo qualche mese, quando ormai il treno ha probabilmente già raggiunto la stazione.

All’inizio del secolo scorso, Louis Brandeis, giudice alla Corte suprema Usa, diceva che la luce del sole è il miglior disinfettante. Se dopo l’affaire Qatar questa diventasse la massima anche delle istituzioni Ue e del parlamento in particolare, questa crisi sarebbe servita a qualcosa.

L’autore è stato segretario della commissione Libertà civili (Libe) dell’Europarlamento dal 1998 al 2011

© Riproduzione riservata