È di per sé bizzarro leggere della crisi dei social, tra perdite in Borsa e licenziamenti, posto che la dimensione social è un dato irreversibile da cui si continua e si continuerà a spremere quattrini. Dal lato degli utenti i social – dacché quindici anni fa si sono fusi con lo smartphone – assicurano agli umili e agli illustri la “ribalta permanente”, quel farsi accorgere di sé che ai più comprova la propria stessa esistenza in vita. E poiché la voglia d’esistere è indistruttibile e produce testi e video, clicca e condivide, l’ambiente social è quella realtà individuale e di massa che attira la pubblicità come la mosca al miele. È lì che trova il modo di rivolgersi a molti e in maniera adeguata a ogni profilo. Se questo vale per le marche storiche, che da sempre intasano i mass media, conta ancor di più per le tante industrie che si sono sviluppate proprio in funzione del brulichio dei social, in cui scovano, corteggiano e rastrellano nicchie di consumo altrimenti disperse, che collegano le passioni comuni a singoli individui sparpagliati in tutto il globo.

Cionondiméno – al listino tecnologico (il Nasdaq della Borsa di Wall Street) – le imprese del business social media hanno perso la metà del valore, chi più chi meno, rispetto al 1° gennaio di quest’anno e stanno dando corso, da ultimo, a licenziamenti, dolorosi per chi li subisce, ma anche per le industrie che perdono e lasciano liberi in circolo talenti che conoscono i segreti tecnologici e commerciali del mestiere.

Il dominio di Meta

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In questo clima gli analisti si concentrano su Meta che ha perso e licenzia più di chiunque altro (-72,5 per cento le quotazioni rispetto al 1° gennaio 2022, e undicimila licenziamenti appena avviati) ma con le sue app Facebook e Instagram risucchia comunque la stragrande maggioranza dei ricavi dal mercato. 

Tant’è che, nonostante il crollo di valore, vale ancora il quintuplo di tutti gli altri social messi insieme. Per cui è difficile non credere a Ben Thompson, il titolare del blog Stratechery, che prevede per Meta non un declino irreversibile (a dispetto dell’utopia del Metaverso e del protagonismo inamovibile di Mark Zuckerberg), ma un cambio di marcia fondato sullo sviluppo di nuove strutture e software di intelligenza artificiale, che elaboreranno i target di consumo funzionali alla pubblicità con precisione probabilistica e sulla base di dati anonimi anziché sull’attuale spionaggio individuale.

Si tratterebbe di un passaggio epocale per il modello di business social, ma solo per chi è in grado di permetterselo, perché richiede un’infrastruttura tecnica tutta nuova e costosissima, certo fuori dalla portata d’ogni concorrente di Meta, salvo forse qualche altro gigante (Google? Apple?) voglioso di romperle le scatole.

Una prospettiva in ogni caso assai concreta rispetto alle incertezze della realtà immersiva con visore e tale da ingigantire il vantaggio competitivo di Meta per i decenni ancora da venire.

Il suo punto debole

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Ma proprio qui veniamo al punto debole, seguendo Shira Ovide che sul New York Times, che osserva la stranezza di un ricchissimo e quindicennale mercato social che, invece di annoverare molte imprese, si trova in sostanza nelle mani di uno solo, Cina a parte.

Ovide non arriva ad affermarlo, ma a noi pare evidente che questa persistente dominanza discenda non dalla qualità del servizio, ma direttamente dal modello di sviluppo winner takes all (il vincitore prende tutto) su cui ha puntato la finanza di Wall Street spalleggiando Facebook.

Da cui la dilatazione fulminea delle infrastrutture in cavi e centri server, l’acquisizione a colpi di miliardi di qualsiasi potenziale concorrente (Instagram e WhatsApp sono stati comprati da Facebook quand’erano agli esordi) e l’esplosione cieca dell’utenza in un miscuglio di umani e robot (volto a spremere l’engagement dell’utente-consumatore) che gli stessi report della casa si premurano, mettendo le mani avanti, a dichiarare non verificato e, chissà perché, inverificabile.

In pratica, Meta ha saturato velocemente l’utenza social, ma imponendo, quantomeno per far presto, il “social dell’inganno” in cui governano i robot dei marketing aziendali e degli imprenditori della politica.

In pratica realizzando una tonnara degli utenti rispetto alle utopie gentili che speravano nei social come “reti di comunicazione personali”. Per questo ci pare che oggi i social Meta siano sopportati, più che scelti, solo perché gli utenti non possono portare altrove il proprio patrimonio di dati, indirizzi e relazioni e che ciò determini l’indebolimento dell’entusiasmo di massa che finora ha difeso l’azienda di Zuckerberg e Wall Street dalla riscossa degli stati.

Sono gli stati i veri game changer che possono cambiare da un momento all’altro le regole del gioco, obbligando i social sia a essere interoperabili (come è stato imposto alle compagnie telefoniche) sia a trasferire nella disponibilità dei singoli utenti tutti i dati che questi, postando e cliccando, generano quotidianamente dai propri profili.

La posta  in gioco è enorme ed è aprire strutturalmente e stabilmente il varco alla concorrenza e al “radicamento nazionale” del patrimonio dei dati senza i quali non c’è verso di partecipare alla strategica corsa delle intelligenze artificiali.

Sarà per questo che, nonostante la forza di Meta sia ancora enorme e in prospettiva addirittura maggiore, alla fin fine gli analisti finanziari suggeriscono a chi volesse razziarne i titoli al momento deprezzati, di non giocarsi comunque i soldi con cui debbono pagare le bollette.

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