Arnaldo Forlani è stato la Dc così com’era. Non la Dc come doveva essere forgiata (Amintore Fanfani), non la Dc come doveva cambiare (Ciriaco De Mita), non la Dc come non doveva essere più (Mino Martinazzoli). È stato il custode felpato e non troppo ingombrante di un’identità che non voleva essere messa in discussione poiché a sua volta non voleva mettere in discussione il paese.

Le cronache di queste ore raccontato il suo ordinato e discreto peregrinare tra le prime correnti (Giuseppe Dossetti, poi Fernando Tambroni, poi Fanfani). Fino a farsene una tutta sua, ma senza sfoggio di bandiere né pretese di egemonia. Il suo tratto umano e politico era la discrezione. E l’unica utopia che inseguì fu appunto quella di un «potere discreto» come lui stesso amava dire.

Forlani fu il custode di un partito che non avrebbe dovuto essere troppo ingombrante nella vita del paese, né troppo intrusivo nella vita delle persone. Se posso attingere a un piccolo ricordo personale mi capitò nei tardi anni Settanta di invitarlo a un’assemblea dei giovani a cui avrebbero preso parte i grandi dell’epoca (Giulio Andreotti, Carlo Donat-Cattin, De Mita, Flaminio Piccoli). Mi spiegò che non sarebbe venuto, e ne ebbi l’impressione che l’affollamento altrui lo inducesse a un riserbo particolare. Poi però volle spiegarmi come la vedeva. E di lì prese le mosse una lunga conversazione dedicata al ’68, ai moti giovanili e alle conseguenze politiche che si riverberavano sui nostri tardi anni Settanta.

«Il nostro compito e la nostra virtù, disse, consistono nel lasciar essere. Noi non cambiamo le persone e forse non cambiamo il paese. Lo lasciamo esprimere». All’epoca, alle soglie del riflusso, appariva un punto di vista originale. Era l’annuncio di un tempo in cui la politica avrebbe finalmente deposto almeno una parte delle sue troppe armi e delle sue troppe ambizioni. Fu questa visione a guidarlo nei meandri delle vicissitudini democristiane. Non gli apparteneva l’ansia del rinnovamento, né forse la pretesa di durare troppo a lungo. Un certo distacco appariva a volte troppo furbo per essere vero fino in fondo. E tuttavia quel distacco non era privo di autenticità. Come la sua stessa biografia ha rivelato più d’una volta.

Raccontava Enzo Carra, il suo discretissimo portavoce, di quando a palazzo Giustiniani, nel 1973, Fanfani, Aldo Moro e i dorotei si ripresero il partito liquidando Forlani che ne era il segretario e Andreotti che ne era la propaggine di governo. Si voleva sbaraccare la rivolta generazionale di cui la segreteria di Forlani era espressione e tornare al centrosinistra lasciando il Pli di Giovanni Malagodi all’opposizione. La sera prima, a quanto pare, Andreotti andò a piazza del Gesù e spiegò a Forlani, numeri alla mano, che l’operazione poteva essere sventata e il congresso poteva disfare la trama dei capi storici. Forlani ci pensò un attimo e poi gli obiettò: «Ma cosa sarebbe mai questo partito una volta che avessimo decapitati Moro e Fanfani?»

Forlani interpretò con una cura particolare il minimalismo della politica. Un grande merito, secondo il metro dei nostri giorni. E invece un punto debole, secondo i parametri di allora. Gli venne cucito addosso l’abito della rinuncia e il difetto di una eccessiva cautela. Ai democristiani non piaceva l’idea di lasciare Bettino Craxi alla guida del governo. E ai forlaniani qualche volta dispiaceva quel suo muoversi così leggero, apparentemente quasi vago, nelle contese del suo tempo. Una «mammoletta», secondo la definizione non proprio lusinghiera che ne dette Fanfani.

Quella sua carriera in punta di piedi apparve allora quasi come l’annuncio della fine del suo mondo. Troppo signorile per la ruvidezza dei tempi che si stavano annunciando.

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