Ingovernabilità? L’ipotesi, affacciata da tutti i media di fronte ai risultati del 19 giugno, sembra aver provocato un profondo choc nella classe politica francese.

E, per quanto appaia, a chi abbia qualche seria conoscenza politologica, poco adeguata a descrivere i probabili sviluppi della situazione, è bastata a mettere in subbuglio redazioni giornalistiche, direzioni dei partiti – che oggi si riuniranno per affrontare l’inatteso scenario scaturito dalle urne – e, a quanto pare, gli stessi piani alti della Commissione europea, timorosi di veder azzoppato in casa uno dei loro più fidati alleati.

Per la prima volta dal 1958, sulla capacità del sistema della Quinta Repubblica di garantire stabilità all’esecutivo, sin qui data per scontata, si è aperta una discussione che ha assunto immediatamente toni acuti.

Vista attraverso lenti italiane, la questione appare – a prima vista – molto meno grave di quanto sostengono oggi gli editorialisti di gran parte dei quotidiani e delle reti televisive d’Oltralpe.

Nella impalcatura voluta dal generale de Gaulle, i poteri del presidente della Repubblica sono tali da consentirgli, nei fatti, di governare anche in presenza di un parlamento ostile, soprattutto quando le opposizioni, ed è questo il caso odierno, non sono in grado di convergere per imporgli un primo ministro sgradito capace di fargli, limitatamente, da contrappeso. La tanto temuta «coabitazione», che in effetti limita i poteri presidenziali, questa volta non ci sarà, perché mai la coalizione di sinistra, il Rassemblement national e i postgollisti potrebbero trovare un accordo su una figura chiamata a contrapporsi a Macron.

Resta il fatto che il voto del secondo turno delle legislative 2022 ha incrinato, se non infranto, due tabù. Ha lasciato un presidente privo di maggioranza parlamentare malgrado il successo ottenuto solo due mesi prima (e la riforma istituzionale che aveva ridotto il mandato presidenziale da sette a cinque anni, collocando in sequenza quasi immediata le due elezioni, era stata voluta proprio per evitare che ciò accadesse).

E ha dimostrato che, sebbene sia stato scelto proprio perché più adatto di qualunque altro a limitare il peso delle ali estreme, il sistema elettorale a doppio turno può non essere sufficiente a mettere fuori gioco queste formazioni. Il che complica, e non poco, il cammino di Macron, giunto alla rielezione in una situazione paradossale, in cui una parte di quel 70 per cento di connazionali che nei sondaggi dichiarava di non volerlo più all’Eliseo si è rassegnata a cedere alla logica del “meno peggio”.

Malgrado tutto ciò, chi teme di vedersi concretizzare a breve una situazione “all’italiana” – o in stile Quarta Repubblica, con governi volatili, deboli e ricattabili dalle diverse frazioni di un parlamento multicolore – e già ipotizza il ricorso del presidente alla facoltà, che la Costituzione gli concede, di sciogliere l’Assemblea nazionale e indire nuove elezioni, con ogni probabilità esagera.

Nel lessico politico transalpino è entrato infatti da domenica sera un nuovo termine: compromesso. Vista sin qui con orrore, la parola è affiorata sulle labbra di molti dei partecipanti ai talk show del dopo-voto. E per farla digerire ad un’opinione pubblica che i risultati elettorali hanno mostrato sempre più divisa e polarizzata non si è esitato ad attingere al repertorio retorico dei richiami alle ombre funeste del passato: Jean-François Copé, storico esponente dei Républicains, ha evocato i fantasmi di Weimar per sorreggere la sua proposta di un “nuovo patto di governo” con i macronisti, mentre il capogruppo al Senato della République en marche è andato ancor meno per il sottile, dichiarando di vedere nel Rassemblement national l’incarnazione del fascismo – e facendo appello, di conseguenza, ad una sorta di alleanza di salute pubblica. Tanto per ribadire che i populisti sono ben lungi dal detenere il copyright dell’alimentazione delle paure a fini di parte.

In toni più soft, il problema della necessità di accordi e compromessi tra forze politiche che durante la campagna elettorale si erano scambiate accuse pesanti è stato prospettato da quasi tutti gli esponenti di quella che ormai politici e giornalisti definiscono, con sintetica ironia, la Macronie, dalla prima ministro in (un po’ precaria) carica Élizabeth Borne sino alla portavoce Olivia Grégoire, che in diretta televisiva ha proposto una «mano tesa» ad una delle più radicali esponenti de La France insoumise, Clémentine Autain, pur precisando che l’apertura era simultaneamente rivolta tanto verso sinistra quanto verso destra.

E, sempre in nome dei “superiori interessi del paese”, c’è chi si è spinto a sostenere che anche i lepenisti – forti di oltre 90 seggi, gli 89 dei loro candidati più altri 2 eletti con il loro sostegno – dovrebbero essere inclusi nella strategia degli accordi caso per caso sui diversi progetti di legge che la maggioranza presenterà all’Assemblea.

La prospettiva, malgrado il diffuso scetticismo di osservatori sin qui poco abituati a prenderla in considerazione, appare, per quanto complicata, praticabile. Basterebbe infatti puntare su alcune componenti interne del frastagliato fronte delle opposizioni – l’ala progressista dei Républicains, ridimensionata dagli elettori ma ancora forte nelle posizioni di vertice, i socialisti contrari al patto con Mélenchon ma anche alcuni di quelli che lo hanno sottoscritto, taluni ecologisti – per trovare i numeri necessari a far proseguire l’azione ordinaria dell’esecutivo, anche se qualcuno dei progetti su cui Macron aveva impostato la campagna presidenziale, a partire dall’innalzamento dell’età pensionabile, rischia di essere depennato dall’agenda.

Ingovernabilità scongiurata

Va notato anche che, malgrado il tramonto delle speranze di avere i numeri per essere scelto come primo ministro, Jean-Luc Mélenchon ha dichiarato di non aver rinunciato alla prospettiva di fare della sua Unione popolare una forza di governo già in questa legislatura, e che vari suoi luogotenenti hanno accusato di ingratitudine Macron, che invece di ricambiare il sostegno avuto al secondo turno della presidenziale da molti elettori insoumis li ha equiparati ai lepenisti in una denuncia degli opposti estremismi.

Gesti che si possono interpretare come un segnale di disponibilità ad accordi in funzione anti-destre. La temuta ingovernabilità, dunque, sembra già in partenza scongiurata, per effetto dell’impianto istituzionale complessiva della forma semipresidenziale.

Ciò non significa che la politica francese uscirà più o meno indenne dal terremoto del 19 giugno. Ad uscire ammaccati dal voto di quel 46 per cento di cittadini francesi che ha deciso di andare ad esprimere la loro preferenza (in realtà molti meno, se si considera che in Francia la registrazione nelle liste elettorali non è automatica, che il 5,50 ha consegnato una scheda bianca e il 2,15 per cento l’ha annullata) sono infatti alcuni dei pilastri del sistema.

Dei dubbi sul sistema elettorale, si è detto. E se Marine Le Pen e Mélenchon si sono affrettati, nelle dichiarazioni a caldo, a rivendicare il passaggio ad un sistema «più giusto» e «più rispettoso delle scelte dei francesi», anche fra i politologi si sono fatte sentire voci di denuncia nei confronti delle promesse di introduzione di una quota proporzionale di assegnazione dei seggi non mantenute dagli ultimi tre presidenti.

Un’altra vittima di primo piano del responso delle urne è stato il “fronte repubblicano”: il patto in base al quale, di fronte ad un candidato giudicato estremista – la regola era formalmente diretta contro trotzkisti e Front national, ma di fatto riguardava solo il secondo –, i partiti “di governo” sia di sinistra che di destra avrebbero incitato i propri simpatizzanti a favorire i concorrenti moderati, comunisti inclusi.

Il monito, questa volta, è stato ampiamente disatteso. Stando ai primi studi sui flussi di voto, se gli elettori di sinistra hanno favorito il successo dei Républicains sul Rassemblement national in quasi tutte le circoscrizioni, quelli di destra non hanno fatto lo stesso dove ai lepenisti si contrapponevano ai mélenchonisti.

E, fatto singolare, molti elettori della Nupes hanno preferito il Rn ai candidati pro-Macron negli scontri diretti: ciò che non era accaduto alla presidenziale si è verificato questa volta. E il “soffitto di cristallo” che sembrava impedire al Rassemblement national di uscire dalla marginalità si è infranto. Con conseguenze, per la destra e per l’intera dinamica del sistema, che restano tutte da esplorare.

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