Da due mesi sappiamo che il gas è il centro di questa guerra, che l’Unione europea importa dalla Russia un terzo del suo fabbisogno e che questo ha determinato l’indulgenza verso Vladimir Putin negli ultimi anni, i tentennamenti mentre ammassava truppe al confine dell’Ucraina e poi l’approccio incerto dopo l’inizio delle ostilità.

Il rifiuto di agire subito sul fronte dell’energia, con sanzioni, stop agli acquisti o almeno ai pagamenti, oppure con conti vincolati dove accumulare dollari fino alla fine del conflitto, ha condizionato tutto il resto.

Anche l’escalation militare di questi giorni dipende dalla scelta – dettata in gran parte dalla Germania – di abbandonare gli strumenti economici per il rifiuto di toccare petrolio e gas. Se non si combatte con le sanzioni, possibilmente intelligente e pensate da economisti invece che da generali, non restano che i cannoni.

Il risultato della scelta europea di non toccare l’energia – dopo la Crimea nel 2014 come dopo l’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio – ha contribuito a impostare il confronto con la Russia soltanto sul piano bellico. Col risultato che Putin, in difficoltà sul terreno, usa contro di noi un rapporto di reciproca dipendenza che noi abbiamo rinunciato a ritorcere contro Mosca.

L’embargo sul carbone russo non è partito, quello petrolifero – atteso da inizio marzo, quando è scattato per gli Stati Uniti – è ancora in fase di dibattito, sul gas ci sono mille simulazioni e calcoli, ma poi la Germania di Olaf Scholz ha detto che bisogna stare attenti.

La Bundesbank, la banca centrale tedesca, ha pronosticato catastrofi. Nessuno ha voluto seguire davvero l’indicazione di Mario Draghi, cioè creare un cartello di compratori per imporre noi il prezzo alla Russia invece che il contrario (eppure l’unica buona idea sul piano delle sanzioni, cioè congelare gli asset esteri della Banca centrale russa, è stata di Draghi).

E così Putin prende l’iniziativa, nel vuoto di azione europeo, colpisce in modo dimostrativo Polonia e Bulgaria, due paesi che dipendono per il 45 e il 73 per cento rispettivamente dal gas russo. Entrambi i paesi gestiranno la cosa, magari comprando da altri paesi europei che si approvvigionano comunque dalla Russia.

Intanto Putin ha spaccato il fronte europeo, con paesi vittima della propria burocrazia: la Commissione teme che pagare il gas in rubli violi le sanzioni europee, col risultato che molte aziende (pare anche Eni, secondo Bloomberg) potrebbero assecondare la richiesta di Putin e trovarsi colpite da Bruxelles.

Cioè, la guerra economica rinunciamo a farla a Putin la applichiamo contro noi stessi. Il prezzo del gas russo ancora sul mercato intanto sale: Mosca ne vende meno ma ci guadagna di più. Un capolavoro.

Invece di pensare solo ai missili anticarro e pronosticare attacchi sul suolo russo, come fa Boris Johnson, fermiamoci un attimo, definiamo una strategia credibile sull’energia e togliamo a Putin l’iniziativa.

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