La mansuetudine di molti giornalisti alla conferenza stampa di Giorgia Meloni offre un quadro preciso della condizioni di salute del governo. Nessuno crede che sia in difficoltà e quindi ben pochi l’hanno incalzata con domande taglienti, consapevoli dei rischi ai quali andrebbero incontro, tra bavagli, querele e occupazione dei media pubblici, e non solo. Ne consegue che la conferenza stampa è scivolata via tranquillamente, senza scosse e senza suscitare nemmeno tanto interesse. Il capo del governo ha sorvolato su quello che lo infastidiva, ha pasticciato su Mes, Patto di stabilità e Europa, ha dimostrato, una volta di più, una totale inconsapevolezza dei dossier economici e ha difeso il suo progetto di revisione costituzionale pur rendendo,  con una acrobatica piroetta, omaggio al Presidente della Repubblica e ai suoi poteri.

Il punto è che spesso non è importante quello che si dice, il contenuto, bensì il tono con cui lo si afferma: quel misto di sicurezza e improntitudine che lascia molti persuasi e solo alcuni perplessi. L’assertività con cui Meloni confeziona le sue espressioni ha un effetto di convincimento. Chi si esprime così è persona rocciosamente avvinta alle proprie idee e investita da una sorta di missione. Questo aspetto comunicativo è uno dei pregi della premier. Politici come Enrico Letta o Elly Schlein, inclini al ragionamento e al dialogo, più che alla battuta fulminante, hanno una efficacia pubblica minore.

Meloni ne conosce solo quello tranchant, anche a causa della sua formazione culturale. Il suo mondo di riferimento oscilla tra la nostalgia vittimista e rancorosa e il fantasy, un territorio che si pone al di là del razionale. Un territorio nel quale era inevitabile rifugiarsi visto che il mondo moderno respingeva le idealità su cui si era costruita l’identità dei neo-post fascisti. Il recinto di Atreju in cui si erano rinserrati i fratelli nostalgici li consolava del loro isolamento ma non li ha preparati a responsabilità governative.

La stessa Meloni, pur giovanissima ministro a 29 anni nell’ultimo governo Berlusconi – altro che underdog, ci risparmi queste storie da piccola fiammiferaia – è vissuta imbozzolata nella storia della destra nostalgica, con sconfinamenti in quella radicale (come quando partecipò alle esequie di un ex terrorista dei Nar, Peppe Dimitri).

Da quel mondo Meloni e i suoi non sono ancora usciti. Non si contano nemmeno gli esponenti ed eletti locali che fanno apologia di fascismo senza ricevere alcuna reprimenda. Del resto, il caso dell’europarlamentare Carlo Fidanza, inizialmente sospeso quando fu beccato da una candid camera a fare il saluto romano e inneggiare ad Hitler, più prospettare affarucci vari, e da tempo reintegrato nelle sue funzioni di capogruppo a Strasburgo, fa intravedere come andrà a finire con il pistolero di capodanno.

È proprio l’ attaccamento alle radici, che non devono gelare come ha detto più volte la premier, a trascinarla sempre all’attacco dei nemici, persino adombrando complotti, evocati senza alcuna spiegazione in conferenza stampa. Anche stavolta Meloni ha lanciato, con la solita veemenza, una serie di strali polemici contro gli avversari, muovendosi come un capo partito piuttosto che come un capo di governo. La sua dimensione “partigiana” è così forte da trascinarla continuamente nel perimetro della polemica politica. E per questo non viene percepita come un presidente del consiglio affidabile da parte degli avversari.

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