L’allergia dei governi ai “contropoteri”, sia quelli formali come la magistratura o il parlamento, sia quelli civili come la stampa libera, non è certo una novità nella storia italiana. Senza arrivare all’“aula sorda e grigia” invocata dal Duce, vale la pena ricordare il “giornalisti (e intellettuali) dei miei stivali” di Craxi; sul rapporto di Berlusconi con magistratura e giornalisti si è detto in abbondanza; e l’avversione alla stampa e al sistema giudiziario è il tratto che più ha fatto pensare a Renzi come il vero “delfino” del Cavaliere.

Ma se in questi casi l’insofferenza derivava principalmente da una combinazione di amore del comando e megalomania, nella foga verso i contropoteri di Giorgia Meloni, nelle sue invettive, nell’occupazione di cariche di ogni tipo e nelle scelte legislative, c’è dell’altro. Un “altro” che è allo stesso tempo molto pericoloso e molto fragile.

Questo “altro” è il disprezzo viscerale per il diverso da sé. Opinioni, critiche, e domande scomode dei giornalisti indicano una di queste diversità. Così come le inchieste della magistratura sui propri “simili”: corporazioni amiche e fedeli, camerati, classi economiche e sociali nelle quali si riconosce.

Allo stesso modo, la condizione delle donne merita attenzione solo se le donne sono bianche, madri, italiane, e cristiane. La famiglia è un pilastro della società solo se è quella “naturale” (?) composta da papà, mamma e prole. Chi scappa da guerra e fame, o chi migra in cerca di lavoro, merita accoglienza se ha la pelle chiara, è cristiano (come gli ucraini), e magari anche di origini italiane (come i venezuelani).

Tutto ciò che è diverso minaccia una purezza e una ragione: non tanto quella del capo, ma quella del gruppo, o tribù, che si riconosce nella narrazione originaria del partito di Giorgia Meloni e nelle sue radici. E il diverso va emarginato perché è inferiore e allo stesso tempo è un fastidio, anzi una minaccia.

Il pericolo di questa visione egemone, specialmente quando coinvolge anche i fondamenti costituzionali come la divisione dei poteri, è evidente: si ha in mente una versione deteriorata del governo, che invece di rappresentare l’intera nazione, agisce in nome e per conto di una parte, la (presunta) maggioranza. Non a caso, ogni volta che a un esponente del governo, o a un giornalista compiacente, si avanza un’obiezione, la risposta è un riflesso pavloviano: Ma i sondaggi dicono che la “gente” è con noi.

Che cosa rende, invece, tutto questo molto fragile? Innanzitutto, l’odio del diverso dimostra paura e insicurezza. Peraltro giustificate: la storia non procede in modo perfettamente lineare e unidirezionale, ma la traiettoria di fondo è verso un mondo plurale, diverso, aperto e inclusivo. Queer, avrebbe detto Michela Murgia. La destra italiana, e quella internazionale di Trump, Orbán e Putin, mostrano tutta la loro disperazione col loro vittimismo permanente, cosi come nelle parole, opere e omissioni di una classe dirigente incapace e imbarazzante.

La loro aggressività è una risposta alla paura di non essere più davvero al sicuro, e dominanti, chiusi come sono nelle loro platoniche caverne. E in effetti, quando la stampa di regime si nasconde dietro allo slogan “la maggioranza è col governo”, non è nemmeno accurata.

Un partito che i sondaggi indicano al 28 per cento, in un paese in cui vota solo il 60 per cento degli aventi diritto, rappresenta il consenso del 17 per cento degli elettori: un italiano su sei. Più che della maggioranza, quella che Giorgia Meloni persegue è una tirannia della minoranza. A tutti gli altri, la vera maggioranza, non resta che chiedersi se piace un mondo così, ottuso e impaurito. E agire di conseguenza. Basta meno di quanto si creda per mettere fine a questa deriva.

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