Con i suoi 65mila morti l’Italia è fra i paesi che hanno gestito peggio la pandemia in Europa e nel mondo. Da qualunque parte la si prenda è difficile confutare questa affermazione. Tutto il paese si chiede ora “come mai tanti morti” e la lista delle possibili cause è lunga: siamo un paese invecchiato e malato, abbiamo negli ultimi 15 anni indebolito il Sistema sanitario nazionale a forza di tagli, la Lombardia (che conta il 40 per cento dei morti totali) ha messo in ginocchio la sanità territoriale, i medici di base sono stati ridotti a passacarte, e via enumerando.

Ma la causa prima di quanto è successo e continua ad accadere è un governo debole, che ha affrontato la prima ondata con un piano pandemico fermo al 2006, come ha notato un rapporto dell’ufficio italiano dell’Organizzazione mondiale della sanità, restato online per un solo giorno probabilmente per le proteste del governo italiano. Che la dice lunga sull’esecutivo, ma anche sull’indipendenza dell’Oms.

Arrivata l’estate con l’illusione che la pandemia fosse evaporata, ci si è avvitati in una gestione bizantina dell’emergenza basata su 21 indicatori e semafori anziché mettere in piedi una sorveglianza da 400mila tamponi al giorno e se necessario lockdown stretti, brevi e soprattutto tempestivi.

Queste due cose avrebbero potuto salvare molte vite. Non averlo fatto è una grave responsabilità politica, da ripartire equamente con le regioni. Errori altrettanto gravi sono stati fatti da altri governi, ma non da tutti. Forse ce lo potevamo aspettare che un’emergenza planetaria che richiedeva decisioni rapidissime e informate da una robusta ricerca scientifica non fosse proprio nelle nostre corde. Ma anche al netto delle nostre lacune storiche, la politica ci ha messo del suo.

Il vaso di Pandora

Nella seconda metà dell’anno ci si è trovati a dover rispondere a richieste comprensibili di industriali e commercianti di riaprire le attività. C’era anche la preoccupazione che la popolazione potesse patire oltre misura l’ennesima quarantena stretta. In realtà, i pochi studi seri effettuati hanno osservato un aumento di disturbo post traumatico da stress fra i medici, gli infermieri e i malati gravi superstiti, non fra chi stava a casa a fare il “lavoro agile”. Le disuguaglianze sono aumentate e molte attività hanno chiuso i battenti – vero, e se ne doveva tener conto – ma probabilmente la crisi è stata esasperata da una gestione incerta basata su mezze misure protratte troppo a lungo e perciò sfibranti: chiusure secche e brevi avrebbero fatto meno danni.

La pandemia è indubbiamente un vaso di Pandora ricco di sgradevoli sorprese, come l’emergere dell’ultima “variante inglese” (che forse inglese non è). Tuttavia, non saremmo forse dove siamo se da fine maggio un governo forte supportato dalle migliori competenze avesse costruito una strategia all’altezza della situazione, con l’obiettivo prioritario di stringere un cappio intorno ai contagi da rientro estivo, concentrando le forze su Rsa e altri luoghi dove si è consumata la macelleria sociale. Lo sforzo dovrebbe essere organizzativo e sanitario, concentrato ora in prima battuta sulla rapida distribuzione d’un vaccino i cui effetti ci auguriamo duraturi. Ma anche sulla ricostruzione di una sorveglianza adeguata, che come ci mostra in questi giorni la Gran Bretagna passa anche attraverso il sequenziamento virale massivo dei genomi raccolti dai tamponi positivi. A pochi giorni dall’esordio dell’epidemia, il 4 marzo scorso la sanità pubblica britannica ha messo in piedi un consorzio con le migliori menti scientifiche del paese per tallonare le possibili varianti virali, fra cui quella che ha contribuito a invertire la curva dei casi e delle morti nel sudest dell’Inghilterra. Per fare questo da marzo a oggi sono stati sequenziati quasi 200mila genomi virali. In Italia, a quanto è dato di sapere, nemmeno mille. Ora gira la battuta che alla fine si scoprirà che il nuovo virus l’abbiamo regalato noi agli inglesi. Speriamo che resti una battuta.

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