Nicoletta Pirozzi, nel considerare l’invio di armi al governo ucraino un “imperativo morale” (Domani, sabato, 26 marzo), usa categorie di analisi geopolitiche che – partendo da una interpretazione di quel che sarebbe l’intenzione dell’occupante russo – non tengono conto della situazione di reale pericolo generalizzato nel quale si sta dipanando questa assurda guerra nel cuore dell’Europa.

Per comprendere quale sia l’agire etico e razionale nelle condizioni date, bisogna assumere maggiore profondità di visione ed ampiezza di sguardo. Max Weber, già alla fine della prima guerra mondiale distingueva tra “etica dell’intenzione” e “etica della responsabilità”.

Nell’etica dell’intenzione ci preoccupiamo solo degli obiettivi da conseguire, agendo per principi generali, considerando legittimo qualsiasi mezzo per raggiungere il fine ritenuto giusto, senza attenzione alle conseguenze.

L’etica della responsabilità, al contrario, cerca di prevedere e valutare le conseguenze dell’agire, per cui se un obiettivo buono rischia di essere realizzato producendo “effetti collaterali” negativi, cerca di mettere in campo mezzi coerenti con i fini da raggiungere.

Nel nostro tempo, il “principio responsabilità”, riformulato da Hans Jonas come “etica per la civiltà tecnologica”, prescrive di agire “in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza di un'autentica vita umana sulla terra”.

La quale, da Hiroshima in avanti, è ipotecata della minaccia atomica, colpevolmente rimossa dalla coscienza collettiva – anche quella degli “analisti”, a quanto pare - seppur oggi presente più che mai.

Dunque, qualunque azione politica, soprattutto all’interno di una dimensione di conflitto internazionale, non può non tenere conto della situazione atomica così come definita dal filosofo Günther Anders: «La tesi apparentemente plausibile che nell’attuale situazione politica ci sarebbero (fra l’altro) anche armi atomiche, è un inganno. Poiché la situazione attuale è determinata esclusivamente dall’esistenza di armi atomiche, è vero il contrario: che le cosiddette azioni politiche hanno luogo entro la situazione atomica».

È responsabile e realistico tenerne conto ed agire di conseguenza, a cominciare dalla gestione dei conflitti internazionali. Sempre che si voglia essere parte della soluzione, anziché del problema.

Questo tema era perfettamente presente ai Costituenti italiani che iniziarono a lavorare alla Costituzione a poco meno di un anno dalla tragedia delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.

La Costituzione fu scritta con un linguaggio volutamente inequivocabile, che non consentisse fraintendimenti. Per questo non sembrò abbastanza chiaro il verbo “rinunciare” della prima stesura dell’attuale Articolo 11, perché avrebbe mantenuto implicitamente l’idea di un diritto al quale si rinuncia, mentre per i Costituenti non c’è nessun diritto a fare la guerra, e scelsero il verbo “ripudiare”, che contiene il disprezzo per ciò che si è conosciuto e si vuole allontanare per sempre.

Quel solenne incipit del definitivo Articolo 11 – «L’Italia ripudia la guerra» – diventò così elemento fondante di una una storia nuova rispetto al ventennio fascista, fondato proprio sul militarismo come elemento identitario. Inoltre, non sembrò sufficiente ripudiare la guerra come «strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», ma fu aggiunto anche come «mezzo di risoluzione delle controverse internazionali» perché i Costituenti erano consapevoli che nessun conflitto può essere risolto davvero con la guerra.

Soprattutto nell’epoca atomica: fu l’introduzione dell’etica del “principio responsabilità” all’interno della Costituzione. Il secondo comma dell’articolo 11, inoltre, che «consente, in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni» e «promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo», fa riferimento alle Nazioni unite che erano nate già nell’ottobre del 1945 con lo stesso spirito della Costituzione italiana per “liberare l’umanità dal flagello della guerra” attraverso la risoluzione delle “controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionale, e la giustizia, non siano messe in pericolo” (Carta delle Nazioni Unite, Art. 2). La Nato, come alleanza militare difensiva, sarebbe stata costituita solo nel 1949.

In questo quadro di riferimento valoriale e giuridico, la scelta italiana di inviare armi al governo ucraino è inaccettabile sul piano etico, sbagliata sul piano politico ed al limite della legalità sul piano giuridico.

Inaccettabile sul piano etico perché - per quanto l’Ucraina possa legittimamente decidere di rispondere all'invasione russa con la resistenza armata - l’invio di armi non risponde al principio di responsabilità nel contesto concreto di rischio di una guerra atomica tra potenze nucleari che mette in pericolo l’intera umanità: hanno esplicitamente messo sul tavolo questa possibilità sia il presidente Putin che il presidente Biden.

È sbagliata sul piano politico perché l’aggiunta di altre armi alle armi già presenti non solo getta benzina su fuoco in un incendio che divampa, allontanando anziché avvicinare il momento del cessate il fuoco, ma dà forza agli oltranzisti invece che ai negoziatori di entrambe le parti e rappresenta un atto concreto di belligeranza.

È al limite della legalità perché, anche se è stata formalmente osservata la norma della legge 185 del 1990,  rappresenta un atto sostanzialmente contrario al ripudio costituzionale della guerra come «mezzo di risoluzione delle controverse internazionali».

Che fare dunque? Tre cose fondamentali. La prima, uscire dall’ottusa logica bellicista che sta dilagando nel nostro paese (con il corollario della “caccia al pacifista”) ed usare l’intelligenza, ossia la capacitò di intus legere, leggere dentro al conflitto per arrivare ad una soluzione non catastrofica.

La seconda, sostenere attivamente tutti coloro che – all’interno dei due fronti contrapposti – si muovono con l’etica della responsabilità: gli obiettori di coscienza, i disertori, i resistenti alla guerra, i dissidenti alla logica bellica i quali stanno pagando in prima persona e a caro prezzo le loro azioni. Dando voce e forza ai costruttori di pace russi e ucraini che chiedono ai rispettivi governi di deporre le armi e sedersi al tavolo delle trattative.

La terza: imparare da questi errori e intraprendere da subito la strada del disarmo e della costruzione di strumenti nonviolenti per la gestione dei conflitti, anziché quella di una nuova folle corsa agli armamenti, come invece ottusamente vuole fare la maggioranza del parlamento, contro l’opinione della maggioranza degli italiani.

© Riproduzione riservata