Molto tempo fa, studiando come cambiano i partiti, ho imparato che rarissimamente passano da un estremo all’altro. L’arco delle oscillazioni possibili è spesso abbastanza ristretto.

Per smontare e rimontare il Pd, come si propone Stefano Bonaccini, bisogna avere una straordinaria forza politica. Bisogna anche avere una visione strategica di cui finora il candidato Bonaccini non ha fornito alcuna prova.

Al contrario, ha preferito parlare di territorio e di politiche piuttosto che di struttura, di reclutamento, di modalità della scelta delle candidature.

Non donna di partito, ma di movimento, anche questa è una contrapposizione di scuola antica, Elly Schlein ha quantomeno indicato due obiettivi molto importantI: le candidature verranno dai territori e lì dovranno agire, mettendo così fine al fenomeno imbarazzante (per molti tranne, forse, i candidati/e), e le correnti verranno combattute.

Naturalmente non c’è garanzia che saranno emarginate, ma almeno Schlein lo propone, mentre Bonaccini, già renziano di spicco e dai già renziani sostenuto, è in materia tanto silenzioso quanto evasivo. Qualcosa sul partito che conosce ha detto Paola De Micheli, ma mediaticamente non ha sfondato.

Nel frattempo, candidati e candidate propongono ambiziose riforme, elaborano politiche, annunciano solenni principi operativi come se il Pd fosse al governo e loro fossero il capo (la capo?) del governo.

 Lasciando perdere progetti fantasiosi tutti a molto futura memoria, sono giunto alla conclusione, rivedibile solo a fronte di obiezioni effettivamente dirimenti, che due macro riflessioni sono indispensabili.

La prima è un’autocritica approfondita della fusione a freddo del 2007 fra due partiti già indeboliti, Ds e Margherita, e privi di cultura politica.

Il professore di scienza politica vorrebbe sapere quali erano allora i libri di riferimento e quali potrebbero essere oggi.

Non basta, come mi ha messaggiato un parlamentare di (già troppo) lungo corso, avere calcato le aule della politica per potere vantare una cultura politica.

La seconda è da dedicare ad una analisi della politica in Italia: dove siamo, perché siamo arrivati a tanto, poco?

Poiché, come soleva affermare Giovanni Sartori, «chi conosce un solo sistema politico non conosce neppure quel sistema politico», l’analisi deve essere comparata e tenere conto del “vincolo” europeo che è una grande, permanente opportunità.

Europarlamentare per un mandato, Schlein dovrebbe sfruttare le sue conoscenze in materia. Fra l’altro, l’europeismo è una cultura politica e il Partito Democratico è già riconosciuto come il più europeista dei partiti italiani.

Mi accorgo di avere fin qui scritto con molto apprezzamento e con speranza troppo vicina ad un più o meno pio desiderio. Comunque vada, la storia e la teoria dei partiti suggeriscono che raramente le organizzazioni di uomini e donne che presentano candidati, ottengono seggi, vincono cariche, spariscono di colpo.

In buona misura, che dovrebbe essere rivendicata, il Partito democratico è, pur con tutti i suoi visibilissimi difetti, a cominciare dai suoi dirigenti, un partito indispensabile (non, però, insostituibile), nel sistema politico italiano e utile nel parlamento europeo.

Dal conflitto di idee e proposte di coloro che si sono candidati/e e dalle critiche dei commentatori preparati e degli studiosi disincantati può sortire qualche inattesa novità.

Se no, il galleggiamento continuerà. Qualunquemente. Viziosamente. Tristemente.

   

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