“I figli non danno la felicità”, o così dicono gli studi delle università americane che escono ogni tanto (c’è uno studio di un’università americana per qualsiasi argomento, si sa). I figli non danno la felicità, e lo si legge spesso, più spesso di quanto si creda, se si fa attenzione.

Un po’ la fatica di crescerli, un po’ l’ansia di sbagliare nell’educarli, un po’ il terrore che accada loro qualcosa.

Prima della nascita dei figli non siamo mai stati così spaventati, nessuno ci ha mai fatto preoccupare in quel modo. Tutte queste cose, pare, si mangiano la felicità.

Certo anche il denaro non dà la felicità, ma bisogna riconoscere che a nessuno passerebbe per la testa di inventare metodi contraccettivi che permettano di evitare l’arrivo dei soldi nella nostra vita.

Questo perché il denaro magari non dà la felicità, ma risolve molti problemi (non serve uno studio americano che lo provi), e quando i problemi sono risolti magari la felicità non arriva, però si ha il tempo di guardare pensosamente un bel panorama.

I figli, invece, non risolvono i problemi. Di norma li generano, non è colpa loro, è la natura delle cose. E se sei davanti a un bel panorama, tu comunque non ti puoi rilassare: devi inseguire il figlio piccolo che corre per il prato.

Prole e denaro

Figli e soldi sono troppo diversi. Per fortuna. Un tempo la prole serviva al lavoro dei campi, al lavoro in generale, dunque aveva un valore economico.

Oggi i figli sono economicamente privi di valore (per i genitori, non per la società, ma questo è un altro discorso).

I figli, nel presente, sono un centro di costo per la famiglia, come diceva un tempo una famosa firma del Financial Times. Chiamava i suoi figli Centro di Costo 1 e Centro di Costo 2. Qualcosa del genere. Ma si tratta di una visione che dice poco della vita: è superficialmente umoristica, perde significato in fretta.

I figli non danno la felicità, ma danno soddisfazione, questo gli studi lo ammettono. La soddisfazione è una cosa diversa, è un sentimento fabbricato nel tempo. La soddisfazione non è benessere, perché il benessere è qualcosa che deve verificarsi nel presente, lì per lì.

I figli non è che non diano benessere, ma il benessere che danno, sempre in base agli studi, è imprevedibile, a volte c’è, a volte scompare del tutto. Questo benessere a singhiozzo crea una sensazione di perdita di controllo.

E i genitori?

Ribaltiamo il discorso. I genitori danno la felicità? Un figlio senza genitori è considerato sfortunato, un figlio con i genitori sarà più felice, a meno che tali genitori non gli distruggano la vita in qualche modo.

 Mi viene in mente quella famiglia composta da un padre e da due figli maschi. La madre è morta, dunque è stata idealizzata, è un fantasma, anzi un angelo. Il padre è un soggetto complicatissimo, sfuggente, che fa scelte poco sopportabili. Insomma, la faccio breve, come molte persone sto leggendo Spare, l’autobiografia del principe Harry.

Fra me e me ho ribattezzato il libro “Harry, il figlio del secolo”, un richiamo al titolo del libro su Mussolini, non perché pensi che Harry abbia a che fare con Mussolini, ma perché Harry è proprio un figlio, anzi è l’ultrafiglio, è la versione iperdrammatica del figlio (una tragedia incompleta, la sua, in verità, e fortunatamente per lui, ci mancherebbe). Più precisamente, Harry è la versione tragica del figlio del nostro tempo.

Come ogni eroe tragico, Harry ha anche una serie di ossessioni. In cima a tutte, l’ossessione per la propria fragilità, e per il racconto di questa fragilità. Un’ossessione oggi molto diffusa, anche se non credo sia questa la ragione del successo del libro. (Credo che la ragione del successo del libro sia la sua adesione leggera ad alcuni princìpi della tragedia shakespeariana; lo scrittore fantasma che scrive il libro sa quello che fa).

Torniamo alla domanda iniziale. I figli danno la felicità? In realtà ci sono varie ragioni per cui questa domanda mi sembra stupida. La ragione principale: non credo che gli altri – figli o non figli – vengano al mondo per darci la felicità.

Gli altri vengono al mondo per condividere con noi un percorso, bussano alla nostra porta e noi possiamo fargli spazio nella nostra vita (con i figli siamo obbligati a farlo, ma questo non significa che poi realmente lo facciamo).

Questo gioco di spazi e di percorsi condivisi è il senso profondo dell’esistenza, la sua meraviglia. La felicità è una parola vuota che va bene per chi vive nel terrore di perdersi sempre le occasioni. Per chi pensa che la vita vera sia sempre da cercare altrove.

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