L’astensione elettorale è un fenomeno in crescita in tutte le democrazie, e ormai da molti anni. L’Italia non fa eccezione, benché rimanga ancora sopra la media quanto a partecipazione. A esclusione dei paesi in cui il voto è obbligatorio – Belgio e Lussemburgo – si registrano alte percentuali di voto, tra l’86 per cento e il 76 per cento nei paesi scandinavi – Danimarca, Norvegia, Svezia, Islanda – e poi in Olanda, Germania e Austria.

La quota di votanti, in Italia, è scesa sotto l’80 per cento nel 2013 e nel 2018 arrestandosi, e vedremo cosa sarà successo ieri, al 73 per cento. Tuttavia, dietro di lei si trova la maggior parte dei paesi dell’Ue: sono soprattutto quelli di nuova democrazia nell’area centro orientale a manifestare la più alta disaffezione, anche se nazioni di lunga tradizione democratica come Svizzera, Gran Bretagna e Francia si collocano anch’esse in fondo alla lista.

Nei primi decenni post bellici la partecipazione alle urne in molti paesi, compresa l’Italia, superava il 90 per cento. Lo scontro ideologico tra un fronte socialista e un fronte moderato alimentava la passione politica. Erano in gioco visioni della società contrapposte, con programmi scanditi da slogan pungenti; e le invettive nei confronti degli avversari non erano dissimili rispetto a quelle odierne, se non per una minore sguaiatezza. Ovunque i partiti erano vettori di mobilitazione molto attivi ed efficaci.

In Italia vi era un di più rispetto ad altre nazioni del continente. In primo luogo, l’entusiasmo per aver ritrovato la libertà si esprimeva con una partecipazione massiccia a quella festa laica che sono le elezioni. In secondo luogo, a indirizzare le persone verso le urne contribuivano, oltre ai partiti e alle organizzazioni a essi collegate, anche e soprattutto le parrocchie con la loro diffusione territoriale capillare e l’impegno diretto del clero.

Partiti e chiesa

Fin quando la chiesa ha mantenuto una struttura così ramificata e attiva, e fin quando ha avuto un interprete diretto delle sue aspirazioni come la Democrazia cristiana, il suo impegno ha contribuito a sostenere un alto afflusso di persone ai seggi elettorali. Nel momento in cui l’azione maieutica dei partiti e della chiesa si è indebolita, si è solidificato quello strato di apatici strutturali: persone dotate di scarse risorse personali in termini di reddito, istruzione e relazioni sociali, nonché ingabbiate in contesti marginali geograficamente – piccoli comuni e comunità isolate, soprattutto nel sud – e socialmente – disoccupati, lavoratori precari e a basso e incerto reddito.

Come ha scritto un attento studioso di questo fenomeno, Dario Tuorto, l’assenza di risorse interne e di mobilitazione esterna ha alimentato «manifestazioni di disaffezione e di apatia verso una politica percepita come qualcosa di remoto e poco importante». Questa componente non è stata scalfita negli ultimi decenni in quanto non sono aumentate significativamente né le disponibilità economiche – i salari e il Pil sono rimastati stagnanti – né gli strumenti culturali – il livello medio dell’istruzione è rimasto molto basso tant’è che siamo tra i paesi europei con il minor numero di laureati.

E agli apatici strutturali si sono poi affiancati gli astensionisti critici, composti da cittadini informati e consapevoli del dibattito politico ma che non trovano nessun rappresentante degno del loro consenso. In quest’area si collocano anche i critici “a prescindere” che esprimono un rigetto radicale e rabbioso nei confronti di tutti i partiti, senza distinzioni. La loro astensione esprime un atteggiamento di protesta sistemica più che di critica puntuale ai singoli partiti. Costoro erano ben rappresentati da quel celebre urlo lanciato da Beppe Grillo nella piazza di Bologna, nel settembre del 2007.

Il non voto

Nelle ultime elezioni si è comunque assistito a un ulteriore slittamento nella componente astensionista. Il non voto si è affermato anche nelle aree geograficamente centrali, vale a dire nelle grandi città del centro nord e nella zona rossa. In particolare, l’Emilia-Romagna ha registrato il calo maggiore di consensi tra 2013 e 2018 a significare, probabilmente, una disaffezione rispetto all’azione del partito guidato da Matteo Renzi.

Corrispettivamente dove, sempre nel 2018, il M5s è cresciuto rispetto al 2013, l’astensionismo si è ridotto, evidenziando quindi una potenziale capacità di attrazione degli elettori più insoddisfatti dalle tradizionali offerte politiche.

Sulla base dell’andamento di questa campagna elettorale è ipotizzabile che il voto segua lo stesso schema del 2018 nella relazione tra il non voto e il consenso a Pd e Cinque stelle.

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