È difficile in questi giorni tenere il passo delle dichiarazioni del governo in merito a lavoro e fecondità, da ieri anche fisco e fecondità.

Siamo passati dalla premier Giorgia Meloni che dichiara che «per creare manodopera non servono migranti, ma far lavorare di più le donne» alle indiscrezioni sul piano del ministero dell’Economia per tagliare le tasse a chi ha due figli, alla più precisa «detrazione di 10mila euro l’anno per ogni figlio a carico fino al termine degli studi anche universitari, per tutti i nuclei senza limiti di reddito» del sottosegretario Massimo Bitonci, senza poterci risparmiare il timore della “sostituzione etnica” del ministro Francesco Lollobrigida.

Un calderone in cui la posizione ideologica è netta, ma lo sguardo sulla realtà è vacuo.

Già l’associazione tra lavoro migrante e femminile è problematica, perché è indice di una visione che accomuna gli svantaggi. Il lavoro migrante è spesso sottopagato, sotto qualificato e irregolare come, e anzi più, del lavoro femminile. Mettere in opposizione lavoro femminile e migrante significa comunque subordinare l’uno e l’altro rispetto a quello maschile: «Non soggetti sulle cui competenze e capacità investire per garantirne autonomia e indipendenza, né persone da supportare affinché possano superare gli ostacoli che una società ancora fortemente a misura d’uomo (autoctono, per aggiunta di chi scrive) pone alla loro possibilità di accedere ad alcuni ambiti lavorativi o posizioni decisionali, ma manodopera», come ha ben detto Barbara Poggio, docente di Sociologia all’Università di Trento.

Ma la lotteria degli annunci è proseguita ieri prima con un piano per tagliare le tasse alle coppie con almeno due figli e poi con l’idea più concreta della re-introduzione delle detrazioni per i figli a carico. Un annuncio che arriva dopo che l’Assegno unico universale le aveva sostituite, anche nel nome della razionalizzazione delle misure che pesano sul gettito fiscale.

La detrazione per i figli a carico può avere un senso per alcuni gruppi di lavoratori, ma crea uno squilibrio tra famiglie senza tenere conto di tutte le dinamiche del lavoro che inducono alla mancata genitorialità e delle caratteristiche sociali del paese - l’Assegno unico è a vantaggio degli incapienti.

Oggi per ogni 100 donne senza figli occupate ce ne sono solo 73 con figli in età scolare presenti nel mercato del lavoro retribuito. Questo significa che alta è ancora nel nostro paese la presenza di madri inattive o inoccupate, soprattutto tra le bassamente istruite.

Problema affrontato a posteriori

Se ora è chiaro il legame tra lavoro femminile e fecondità, per cui sono le famiglie a doppio reddito quelle in cui nascono più figli, e quindi quelle in cui la donna ha un’occupazione, ancora una volta gli incentivi andrebbero indirizzati a creare le condizioni per la genitorialità, se desiderata, e non solo a posteriori.

«È necessario affrontare il tema della cura ampiamente intesa, sia nel versante di condivisione familiare o di welfare disponibile e/o accessibile per incrementare sia le opportunità che il “costo opportunità”, dice infatti Inapp. Detassare il lavoro può diventare un buon mezzo, ma questo va fatto quando il lavoro c’è. Tra i nuovi contratti under 29 attivati nel primo semestre del 2022, è a tempo indeterminato solo il 12,3 per cento dei contratti degli uomini e il 9,1 per cento di quelli delle donne. Sono questi – partecipazione e stabilità- gli aspetti su cui agire con urgenza, così come potenziare ulteriormente l’Assegno unico universale.

Fecondità in calo tra gli stranieri

In merito alla teoria complottista della sostituzione etnica, rimane il dubbio che tale affermazione meriti un commento, ma dato che sembra che il governo sommi annunci per farcela dimenticare, sicuramente è importante sottolineare, ancora una volta, quanto sia scollegata dall’attualità per molti motivi. L’innegabile avanzare di una società multiculturale fa il paio oggi con il calo della fecondità tra le donne straniere residenti nel nostro paese. Oltre a una componente strutturale legata al crescere dell’età delle donne straniere nel nostro paese, a una componente culturale legata al progressivo avvicinarsi della cultura tra chi arriva e chi c’è già, dobbiamo tenere conto che tutti i limiti di un welfare familiare come quello italiano di cui risentono le famiglie autoctone, sono amplificati per le famiglie straniere. Questo ancor più di fronte a un mercato del lavoro meno protettivo. Incentivare le politiche che aiutano le famiglie anche in termini di esternalizzazione della cura, come ad esempio sostenere la gratuità degli asili nido, già realizzata in alcune esperienze locali, può essere, invece la via.

Colpisce, in generale, non per originalità ma per tempismo, l’idea dell’incentivo alla genitorialità autoctona come missione dello stato. Non è tanto una spinta a trovare soluzioni per appagare il desiderio individuale, quanto la pressione sull generazioni più giovani a immolarsi per il bene comune, già questo un concetto distante dal pensare individuale o di coppia contemporaneo. Chiaramente, non è nemmeno considerata l’opzione della mancata intenzione alla genitorialità, ma questa presupporrebbe un ragionamento fine e distante dall’ottica di chi oggi ci dirige. Avere molti figli, d’altronde, significa avere molti potenziali lavoratori in grado di sostenere, tramite il versamento dei contributi, il sistema nazionale dei servizi. Una prospettiva che, pur evidentemente convincente per chi ci dirige, difficilmente lo sarà per le donne in età feconda.

Aumentare la possibilità di diventare genitore per chi lo desidera dovrebbe sì essere una priorità, così come aumentare la protezione e la parità nel mercato del lavoro, ma questo tipo di incentivo andrebbe esteso a tutti i gruppi sociali, famiglie omogenitoriali comprese, distanziandosi da un modello culturale che fa delle distanze e delle differenze tra famiglie il suo cardine.            

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