Un disagio, a quanto pare, cova nel Partito democratico: quello di frange cosiddette “riformiste” che, ad appena sei mesi di distanza dall’elezione di Elly Schlein, avvertono la sua leadership come troppo “radicale”, parlano di “pluralismo” da difendere e “vocazione maggioritaria” da preservare.

La segretaria, da parte sua, risponde con fermezza, tenendo fede al proposito di mutare il volto del partito: da formazione “pigliatutto”, interclassista, a forza che guarda più chiaramente a sinistra.

Se le parole, in politica, avessero un significato, parlare di “sinistra” non dovrebbe far paura a una formazione che apre il suo Manifesto per un nuovo Pd (approvato, sia detto per inciso, prima della vittoria di Schlein) parlando di «una promessa di giustizia sociale, inclusione e uguaglianza da realizzare attraverso un impegno collettivo», e di «disuguaglianze, povertà, discriminazioni e marginalità sociali» come «il più grande impedimento a ogni forma di coinvolgimento collettivo e di emancipazione».

L’analisi che manca

Per decenni – quasi secoli, ormai – a muovere le persone a fare politica in questa parte politica è stato «il disagio di fronte allo spettacolo delle enormi diseguaglianza, tanto sproporzionate quanto ingiustificate, tra ricchi e poveri, tra chi sta in alto e chi sta in basso nella scala sociale»: quello di cui parla Norberto Bobbio in una nota personale contenuta nel suo classico Destra e sinistra, ripubblicato da Donzelli nel trentennale dall’uscita. Cosa muove oggi le persone a fare politica nel Pd, se avvertono campagne come quelle sul reddito minimo e la sanità pubblica, l’opposizione alle politiche contro poveri, migranti o persone Lgbt, l’impegno sulla giustizia climatica come troppo “radicali”?

Come ha scritto Marco Damilano, dopo il caso dei fuoriusciti della Liguria, gli eletti se ne vanno senza analisi del perché se ne sono andati gli elettori. Senza chiedersi se la catena di insuccessi del partito sia da imputare alla perdita di identità, alla pretesa di rinunciare a collocarsi dentro quella grande dicotomia che divide il campo della politica. Senza, dunque, l’ambizione di rappresentare alcun “popolo”.

La distanza non colmata

Sembra proprio il “popolo” il grande assente dal dibattito sulla natura, il presente e il futuro del Pd. Quel popolo che il filosofo Mario Tronti chiamava «perduto», nella sua critica a una sinistra post-comunista sempre più lontana dai bisogni della classe lavoratrice.

Anche Schlein fatica ad accorciare la distanza, a causa di una dissomiglianza quasi antropologica che la separa dal corpo largo del paese. Però lei questo popolo lo va disegnando e cercando, quando parla – come ha fatto dal palco della Festa dell’Unità di Ravenna – di rider, donne che fanno le pulizie negli hotel, lavoratrici e lavoratori poveri e precari. Persone che hanno perso, insieme alle tutele e al potere d’acquisto, anche la speranza in un cambiamento possibile.

C’è una destra che, in Europa e a casa nostra, difende apertamente le diseguaglianze – tra uomini e donne, tra eterosessuali e omosessuali, tra nativi e migranti, tra maggioranze e minoranze, tra ricchi e poveri, tra vecchi e giovani – e che tuona contro l’“ambientalismo ideologico” negando il cambiamento climatico, di cui proprio i gruppi più svantaggiati faranno le spese.

Combattere questa destra significa quindi combattere le diseguaglianze. Ma per farlo serve capacità di costruire consenso. Non tanto – o non solo – nel dibattito asfittico interno al partito, ma nella società. Con meno discussioni sulla leadership, e molta più ambizione di riconquistare, pezzo a pezzo, il «popolo perduto».

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