Il M5s, autonomamente, si è dato la regola del limite dei due mandati a tutti i livelli, dai consiglieri comunali sino ai parlamentari. Forse troppo, al prezzo di sacrificare competenze ed esperienze.

Ma il limite dei due mandati è invece una regola sacrosanta, che vanta robuste motivazioni di rango istituzionale con riguardo a figure di governo a elezione popolare diretta.

Dunque presidenti di regione e sindaci (con al più l’eccezione per i piccoli comuni).

Sorprende che, persino nel Pd, si finga di ignorare la sostanziale differenza quando si argomenta che il limite non si applica a parlamentari e ministri.

Il limite dei mandati è un naturale, saggio corollario della elezione diretta, della singolare forza e del conseguente potere conferito da tale investitura. Ricordo perfettamente che fu fissato all’atto in cui il parlamento introdusse l’elezione diretta dei presidenti di regione.

La cultura del limite

Trattasi di una regola strettamente coerente con una buona cultura costituzionale, che fa tutt’uno con la “cultura del limite”, dei bilanciamenti e delle garanzie, contro il rischio di una esorbitante concentrazione/incrostazione del potere. O, per dirla in positivo, per propiziare una sana circolarità e avvicendamento delle élite che fa tutt’uno con la democrazia (costituzionale).

Del resto, di quel rischio abbiamo un chiaro riscontro empirico. Persino nel lessico. Alludo alla impropria denominazione “governatori” (priva di ancoraggio alla Costituzione) assegnata ai presidenti di regione, da loro stessi boriosamente avallata.

Ma anche a certe loro derive comportamentali, che abbiamo pagato a caro prezzo dentro il dramma del Covid, con una spinta alla disarticolazione del Sistema sanitario nazionale. Ma vieppiù stupisce che tale distorsione possa fare breccia nel Pd, impegnato a contrastare su due fronti l’autonomia differenziata giustamente bollata come spacca-Italia e il “premierato assoluto”, circa il quale persino la destra al governo ha pensato bene di introdurre il limite dei due mandati al premier eletto.

Una questione di stile

Con quale coerenza da parte di esponenti del Pd? Sia lecita altresì una nota di stile. Colpisce la circostanza che a battersi per cancellare quel limite siano gli stessi interessati, presidenti di regione e sindaci in uscita. Un singolare, malcelato conflitto di interessi.

Così pure colpisce che a mettersi alla testa di quella non innocente battaglia siano soprattutto esponenti della minoranza Pd. Vedi caso quando la segretaria del partito, notoriamente eletta per innovare a dispetto di buona parte della nomenclatura, è alle prese con un braccio di ferro con cacicchi e ras territoriali alla De Luca.

Del quale ogni giorno si misura lo spirito collaborativo con il partito e la sua leadership, nonché il senso della misura e dell’eleganza con i quali egli interpreta la sua figura istituzionale. Si osserverà: De Luca è De Luca, e tuttavia egli incarna, certo in misura esponenziale, una concezione personale-familistica-clientelare del potere dovrebbe fare riflettere chi misconosce l’esigenza di un limite, temporale e non.

Zaia è più educato e meno pittoresco, ma è arcinoto che la battaglia condotta da Salvini per il terzo mandato porta il nome e il cognome del presidente del Veneto. Da gran tempo considerato suo virtuale antagonista alla guida della Lega. Non esattamente una battaglia di principio che vanti qualche buona ragione istituzionale. Quelli del Pd vogliono proprio fare un regalo a Salvini e uno sgarbo alla loro segretaria, solo perché personalmente cointeressati?

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