Si fa un gioco troppo facile nell’accusare per l’ennesima volta Giuseppe Conte d’incoerenza. Tuttavia il teatro insegna che quando un errore viene ripetuto più di una volta non è più un errore, ma la caratteristica di un personaggio.

Che dopo il primo e il secondo Giuseppe Conte ora ce ne sia un terzo barricadiero, sanculotto, paladino dei poveri e degli oppressi, non deve stupire: e anzi bisognerebbe forse considerarlo non un difetto ma una sua arlecchinesca virtù, se non forse la ragione principale della sua impronosticabile sopravvivenza politica. Freud insegna: tante cose si capiscono meglio sostituendo il benché con il poiché.

Piuttosto, di Conte evidenzierei un’altra ambiguità, secondo me molto più interessante, ed è quella di cui lo ha accusato Guido Crosetto: Conte, sostiene il ministro, soffia sul fuoco dello scontento sociale, corteggia l’odio e la violenza.

Lo fa davvero? Io credo di no, e aggiungerei purtroppo, perché se Conte fosse davvero l’agitatore di piazze che pensa Crosetto, forse sarebbe lui quel leader socialista di cui tutti aspettiamo messianicamente l’avvento.

Invece no: Conte non ha nessuna intenzione di impersonare antagonismi e rivolte: «Noi siamo qui», dice, “per risvegliare la coscienza e lo spirito di solidarietà».

Il messaggio è chiaro: per quanto a sinistra possa grottescamente cercare di spostarsi, il Movimento Cinque stelle rimane una forza di governo e rifiuta ogni accusa di esasperazione del conflitto. Basterebbe questo, credo, a squalificare Giuseppe Conte da ogni aspirazione socialista.

Io credo, invece, che nessuna forza con pretese popolari possa più permettersi di rinunciare al conflitto, e che anzi sul conflitto vada costruita una nuova identità.

Modello ambientalista

L’hanno capito molto bene i movimenti ambientalisti: che sono non a caso la realtà politica più viva e al contempo quella meno rappresentata dai parlamenti.

Ogni loro azione recente è un atto apertamente conflittuale, che costringe chiunque a prendere posizione. Che attacchino un quadro o blocchino un’autostrada, ogni loro intervento polarizza la società in una battaglia che non può più essere interpretata tiepidamente né tantomeno procrastinata ancora.

Quello degli ambientalisti è esplicitamente un teatro di guerra. Non è redditizio, certo, in termini di voti, perché gli ambientalisti non aspirano al governo, e l’ordine non è quindi la loro priorità. Ma è redditizio eccome in termini di potenza storica. In tempi come questi, la capacità di rappresentazione è tutto.

Viviamo nella convinzione che ogni scontro vada evitato a qualunque costo. Ma la grammatica dell’antagonismo, e persino quella dell’odio - lo sosteneva Edoardo Sanguineti - è necessaria al progresso sociale, e ne costituisce un elemento naturale.

La forza di qualsiasi sinistra contemporanea passerà, io credo, da queste due componenti: disponibilità a fare a meno del potere e capacità di fondare una nuova forma di conflitto.

Un conflitto diverso da quelli malsani e disfunzionali inscenati finora con successo dalle destre: Europa contro Nazione, Radical Chic contro Popolo, Stranieri contro Italiani.

Scoprire conflitti più reali, più dinamici, forse più produttivi. E imparare ad abitarli. Come scrive Slavoj Zizek: «Talvolta l’unico modo per risolvere un conflitto non è cercare un compromesso, ma rendere più estrema la propria posizione».

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