La preparazione del Piano di ripresa e resilienza ha monopolizzato il dibattito degli scorsi mesi, alfa e omega della politica economica italiana ed europea del dopo Covid. Ora i piani nazionali sono stati presentati alla Commissione e saranno verosimilmente approvati.

Il programma Next Generation EU, di cui fa parte il Recovery, rappresenta uno sforzo significativo di investimento. I molti che lo hanno criticato, comparandolo ai circa quattromila miliardi dei piani presentati dall’amministrazione Biden , hanno spesso ceduto alla tentazione della semplificazione: in primo luogo, le migliaia di miliardi dei piani americani comprendono molte misure di sostegno ai redditi che nei paesi europei sono già incorporate nei sistemi di protezione sociale. Per quel che riguarda la componente d’investimento pubblico, i circa duemila miliardi del piano Biden saranno spalmati su dieci anni, a fronte dei cinque anni di orizzonte temporale del Recovery.

Cambiamenti strutturali

Se non bisogna cadere nella tentazione di considerare il Recovery irrilevante (soprattutto per un paese come il nostro, che ne ha ottenuta una bella fetta), non bisogna nemmeno pensare che da esso venga la soluzione di tutti i problemi dell’economia europea. Ecco perché è importante riflettere sul dopo.

È quello che fanno ad esempio Olivier Blanchard e Jean Pisani-Ferry in un interessante contributo pubblicato giovedì da Le Grand Continent e da Domani. I due economisti riflettono alle misure da mettere in campo perché la Francia ritorni ai livelli di reddito di fine 2019 già alla fine di quest’anno e riassorba i danni strutturali (la caduta del Pil detto “potenziale”) entro il 2023. L’articolo mette in guardia i policy makers dal rassegnarsi ad una perdita permanente di capacità produttiva, spronandoli al contrario a fare whatever it takes per recuperare tutto il terreno perduto.

Se alcuni settori probabilmente non ritroveranno più i livelli di attività precedenti (si pensi al trasporto aereo), alcuni cambiamenti indotti dalla pandemia, come la riorganizzazione del lavoro, la digitalizzazione forzata di alcune attività, potrebbero tradursi in guadagni di produttività permanenti. Anche dal lato della domanda non è sicuro che la massa di risparmi creata dalla chiusura forzata di settori interi dell’economia sia rimessa in circolo:  l’incertezza rimarrà elevata non solo riguardo alla ripresa dell’attività economica, ma anche alla capacità dei mercati del lavoro di adattarsi ai cambiamenti strutturali che la pandemia ha, se non innescato, amplificato.

Le misure proposte per raggiungere i due obiettivi sono ovviamente specifiche al caso francese; tuttavia se ne possono trarre lezioni importanti anche per noi. Intanto, il modo migliore per stimolare la domanda in un contesto di risparmi abbondanti è quello di sostenere il potere d’acquisto delle categorie di redditi medio-bassi, che tendono a risparmiare meno. Per l’Italia questo significherebbe metter mano al reddito di cittadinanza, per rafforzarlo e correggerne le storture.

Per ridurre possibili colli di bottiglia dal lato dell’offerta, Blanchard e Pisani-Ferry suggeriscono di rafforzare le politiche attive del lavoro e i programmi di riqualificazione professionale, di restringere progressivamente i sussidi e le garanzie ai settori strutturalmente colpiti dalla crisi, estendendone la durata. Sono tutte raccomandazioni che potrebbero essere adattate agli altri paesi europei.

Il costo di tali misure per le finanze pubbliche sarebbe significativo ma non impossibile da sostenere, soprattutto se l’attività economica ripartisse in modo deciso. Tuttavia gli autori sono silenti sul tema della ridistribuzione del carico fiscale, sia per quel che riguarda i grandi vincenti della pandemia (le piattaforme di vendite on line ma non solo); sia, più in generale, per invertire la tendenza all’aumento della disuguaglianza. È sorprendente che proprio mentre il tema della progressività e della giustizia fiscale è al centro del dibattito di politica economica, gli autori non leghino il sostegno ai redditi bassi alla riduzione delle disuguaglianze.

Quanto investire?

Proiettandosi al di là dell’orizzonte temporale di medio periodo, inoltre, si porrà la questione dell’investimento pubblico. Anche senza considerare i bisogni dettati dalla transizione ecologica e dalla riorganizzazione dei nostri sistemi di welfare maltrattati da anni di tagli, i miliardi del programma Next Generation EU consentiranno di recuperare solo una parte del deficit infrastrutturale che i paesi europei hanno accumulato fin dalla fine degli anni Ottanta; un deficit che è diventato una voragine a partire dalla crisi del 2008. Sarà inevitabile proseguire lo sforzo, anche perché l’evidenza empirica ormai è sempre meno controversa: l’investimento privato è molto più dinamico in paesi con investimento pubblico più elevato.

Il programma Next Generation EU rappresenta solo un primo passo: è temporaneo (per ottenere il via libera della Germania) e non finanzia investimenti europei, ma nazionali. Nei prossimi anni, soprattutto se il Recovery si mostrerà efficace, occorrerà dotare l’Ue di una capacità centrale di spesa nella fornitura di beni pubblici europei (la salute, la transizione ecologica, la coesione territoriale) che vada ad affiancare i programmi di investimento pubblico nazionali. Un Recovery Fund permanente. Sarà un cantiere complesso, che dovrà sciogliere nodi importanti sulla responsabilità politica, la condivisione dei costi, l’allocazione delle risorse. Ma proprio per questo è un cantiere che occorre aprire quanto prima.

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