Esiste in questo Paese un campo progressista? Sì, ma esso non si esaurisce all’interno della dimensione partitica. Più specificamente, penso che vi sia un insieme di sensibilità, di buone pratiche, di organizzazioni sia a livello nazionale sia a livello locale che, nel campo della promozione sociale, della costruzione di pratiche di pace intesa come convivialità delle differenze, di accoglienza dei migranti e di costruzione delle condizioni per una nuova cittadinanza sociale, della transizione ambientale, costruiscono nella pratica questo campo progressista, ma allo stato di cose non trovano alcun tipo di rappresentanza a livello politico.

Il campo progressista appartiene in prima istanza alle persone che lo costruiscono; nello stesso tempo, anche i partiti fanno parte di tale campo, ma è evidente a tutti (e da ciò discendono i risultati elettorali come quello del 25 settembre) che il ceto politico che li compone non gode più della fiducia delle persone, ed il tipo di consenso che ancora ottiene arriva più dalla rassegnazione che dalla convinzione.

Del resto, vi è chi è ancora più rassegnato, e lo dimostra l’astensione dal voto (cui vanno sommate anche le schede bianche e nulle) che sfiora ormai il 40 per cento degli aventi diritto, a significare una crisi di fiducia nelle istituzioni, nella capacità stessa della politica di cambiare la vita delle persone.

Il sogno tradito 

Il sogno di un Partito democratico dall’anima riformista, con radici nella socialdemocrazia e nel cattolicesimo democratico, dava la speranza che l’unione del 2007 tra Ds e Margherita non fosse una “fusione fredda” ma rappresentasse un passo in avanti di due grandi tradizioni democratiche che avevano guidato il nostro Paese ricostruendolo dalle macerie del conflitto mondiale

Quel sogno è stato tradito da chi doveva testimoniare certe culture e portarle a sintesi mentre ha preferito la strada del correntismo esasperato, scambiando il potere (all’interno delle correnti) per consenso, e ha sostituito il compromesso alla mediazione alta.

Eppure le occasioni non sono mancate ma ogni volta il Pd ha assunto il ruolo di partito della responsabilità, finendo per essere l’odiato ragioniere che ti manda le cartelle fiscali invece di aprire a programmi ambiziosi che rispondono a domande di senso e indicano strade possibili.

Eppure, per una classe dirigente praticamente al potere da 20 anni, non era difficile capire da che parte stare: quella dei lavoratori, nuovi e vecchi, del ceto medio a rischio di impoverimento, di chi sta ai margini, dei giovani che affrontano il futuro con sfiducia, di tutti coloro che non sono élite ma neppure si identificano nella definizione indistinta di “gente” e piuttosto desiderano essere comunità, popolo, un popolo consapevole delle sue istanze, delle sue differenze e di un destino comune.

Di tale comunità fanno parte a pieno titolo anche i credenti, che non reclamano un posto particolare, ma si orientano piuttosto, come ha detto bene il cardinale Zuppi secondo “il valore più nobile che è quello di cercare ciò che unisce e di risolvere ciò che divide”.

Per questo rimango perplesso di fronte all’identificazione tout court fra certe istanze laiciste e l’appartenenza al campo progressista, che crea una non necessaria barriera fra persone che potrebbero collaborare per un progetto comune.

La società civile organizzata non deve sostituirsi ai partiti ma dovrebbe essere convocata per contribuire alla rigenerazione della politica, delle sue idee, dei suoi costumi. Servirebbero forme nuove che aiutino ad essere lì, dove la gente cerca rappresentanza; che si occupi delle urgenze del paese e non solo operi in emergenza.

Il dibattito autoreferenziale

Ecco perché è ancora più difficile capire la tendenza di molte forze politiche ad un dibattito autoreferenziale e a dinamiche gattopardesche finalizzate a mantenere gli assetti di potere.

Soltanto un dialogo fra tutte le persone e le forze politiche – e sono la maggioranza nel Paese- che non si identificano nella destra conservatrice e sovranista può giovare alla costruzione di questo campo progressista, in modo che in tale dialogo si sciolgano le contraddizioni e si trovi la strada per riconoscersi in una comune progettualità. La storia non è iniziata ieri e non finirà domani.

Come ricordava Michael Walzer al termine del suo saggio su Esodo e rivoluzione, se è vero che ovunque è schiavitù d’Egitto e che comunque può esistere un posto migliore, solo che si abbia la volontà e la forza di attraversare pazientemente il deserto, l’unica scelta possibile è quella di prendersi per mano e mettersi in cammino.

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