«L’unica forza che ha vinto è Fratelli d’Italia, tutte le altre forze le elezioni non le hanno vinte o le hanno perse». Enrico Letta apre la sua analisi mettendo i puntini sulle “i”. Per il segretario Pd il dibattito pubblico sul voto è stato «confuso» e ha cancellato un dato concreto, spiega: il risultato del Pd «non è stato catastrofico, non siamo finiti al 10 per cento».

Ma il centrosinistra non ha vinto, anche questo è un dato di fatto. Perché? Perché «il nostro campo non è stato unito, nonostante uno sforzo fatto per mesi, anni. Abbiamo lavorato per il campo largo che era l’unica condizione con la quale si sarebbe potuto vincere. Il nostro modello era il 2006, non ci siamo riusciti perché abbiamo avuto interlocutori che non volevano stare insieme. Questo è il film». Il dibattito, ora in corso, andrà avanti fino alle 17: a quell’ora si svolgerà la replica, e il voto sul dispositivo proposto dalla segreteria.

Al Pd l’ha rovinato la guerra 

Letta dice di assumersi la responsabilità della sconfitta, ma di fatto ributta la palla nel campo dei mancati alleati. Il lavoro di costruzione del campo largo «è stato interrotto con la caduta del governo. Una interruzione che ci ha intrappolati in una campagna elettorale in cui Draghi sì o Draghi no ha finito per essere centrale». Del resto è stato lui ha innescare il refrain degli «irresponsabili», salvo poi allearsi con i rossoverdi, antiDraghi ben più dei Cinque stelle. 

Ma prima il vero cambio di passo, l’inversione della capacità «espansiva» del Pd nasce con l’invasione russa all’Ucraina: «A febbraio c’è stato un cambio di scenario dovuto alla guerra. Ci siamo assunti le responsabilità di governo per la condizione sociale del paese. E siamo andati in difficoltà». Nessun ripensamento: «Non rinnego le posizioni prese, abbiamo pagato un costo politico e elettorale. Ma da quel 24 febbraio siamo stati dalla parte giusta della storia». 

Da lì però è partita «l’instabilità che fa vincere la destra», «le paure che hanno condizionato il quadro sociale intorno a noi, in tutta Europa», «Forse siamo intervenuti tardi», ammette. 

Giura di «non fare sconti neanche a me stesso» ma si capisce che Letta alcune cose non se le spiega: il programma del Pd «è un grande e bel progetto per l’Italia», ma la campagna elettorale è stata fatta troppo di corsa, «per slogan e emozioni», «non siamo stati credibili». Anche sulle donne, «un fallimento, siamo un partito che non ha compiuto il suo salto in avanti necessario». Dunque «non è possibile tornare indietro rispetto ad avere dei capi dei gruppi parlamentari di sesso femminile».

Fallita anche una delle sue due missioni della sua segreteria: «Non sono riuscito a dare al paese un governo democratico e progressista» ma rivendica di aver costruito «le condizioni per rilanciare un partito che era in liquefazione».

Ora nessuno scioglimento: anzi Letta parte da una giudizio positivo sulla nascita del Pd, quindici anni fa, e propone di mantenere il simbolo «così com’è perché racconta il nostro servizio, all’Italia del tricolore e il legame all’Ulivo». 

Verso il congresso

Non è questa direzione che lancia il congresso, ma la prossima. Sui tempi Letta dà ragione ai riformisti, le primarie si svolgeranno entro marzo: «Deve essere fatto nei tempi giusti e senza complicazioni regolamentari. Penso che questo percorso debba concludersi entro l’inverno. Io guiderò questo percorso con la massima determinazione, lo farò per amore del Pd, assumendomi tutte le responsabilità e garantendo la terzietà rispetto alle parti in campo». 

Nei contenuti dà ragione alla sinistra interna: «Serve un congresso costituente», «Nessun X Factor». Poi lui si farà da parte, «ho cominciato a fare il ministro da giovanissimo nel 1998», forse è un invito anche ad altri, forse è un’allusione a Elly Schlein quando chiede di consegnare il Pd a una nuova generazione, «è giusto metta in campo una nuova classe dirigente».

Intanto però il Pd deve fare opposizione: «È il mandato che ci ha dato il popolo italiano,  essere la guida di un’opposizione che sarà intransigente, costruttiva e non consociativa». E quando il governo della destra cadrà, perché Letta è sicuro che cadrà,  il segretario fa la promessa più ardua: «Non chiederemo governi di salvezza nazionale». Ma non gli costa molto perché, ammette, «non sarò io a guidare quel processo». 

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