In questi anni Walter Veltroni ha spesso preferito il silenzio. Ha scritto libri, girato film, ha osservato la politica da lontano. E, da lontano, ha assistito al lento naufragio della sua “creatura”. Quel Pd che nel 2007 era nato con «vocazione maggioritaria» e che oggi si ritrova a discutere sull’opportunità o meno di sciogliersi.

Per Veltroni, che ieri ha rotto il suo silenzio per concedersi un’intervista alla Stampa, il Pd non deve sciogliersi ma deve coltivare «la sua identità». Per farlo, occorre «tornare alle radici». Cioè all’idea che il Partito democratico non doveva essere un contenitore nel quale inserire ciò «che era rimasto dopo la fine dei partiti del ‘900», ma «il soggetto che coniugava, senza la costrizione delle ideologie, la radicalità del riformismo con la pienezza delle libertà».

Il progetto, in effetti, era ambizioso. Ma c’era in quella sfida, se non la consapevolezza, l’intuizione che le nuove generazioni avevano bisogno di un nuovo partito. Il loro partito. La tradizione, per quanto gloriosa, non sarebbe bastata. Per i ragazzi nati alla fine degli anni ‘90, ma forse anche un po’ prima, Dc e Pci erano paragrafi nei libri di storia, racconti aneddotici. Serviva una identità. Una «identità propria», per dirla con le parole di Veltroni.

Che però, nel 2009, ha salutato tutti e se n’è andato. Peraltro assumendosi pienamente la responsabilità di ciò che era accaduto: «Chiedo scusa di non avercela fatta. Sento di non aver corrisposto alla spinta di innovazione per un riflesso che considero un valore ma forse sbaglio: il tentativo di tenere uniti tutti».

A due anni dalla sua nascita, il Pd “delle origini”, secondo il segretario che aveva contribuito a crearlo, era già fallito. Ci sono voluti tredici anni per capirlo. Ma, forse, neanche questa sarà la volta buona. Perché nonostante la sconfitta elettorale, ancora oggi il problema sembra essere lo stesso: tenere uniti tutti.

Peccato che i tutti, al netto di qualche lodevole eccezione, siano sempre gli stessi: gli ex democristiani come Pier Ferdinando Casini, Dario Franceschini e Bruno Tabacci, gli ex comunisti come Nicola Zingaretti e Piero Fassino, il sindacalismo cislino di Annamaria Furlan e quello cigiellino di Susanna Camusso. Nomi facilmente reperibili in qualche cronaca politica di venti, trent’anni fa. 

Certo, non mancano i giovani di belle speranze. Alcuni di loro amministrano con successo comuni o siedono nei consigli regionali, a ogni tornata elettorale nazionale c’è chi viene promosso tra i candidati. Il più delle volte di loro si perdono le tracce nel corso della legislatura (e non sempre è colpa del sistema che li boicotta), altri ottengono la candidatura semplicemente perché espressione di una delle mille correnti in cui il Pd è diviso. Un metodo non troppo diverso da quello che ha caratterizzato la politica italiana dal Dopoguerra.

Alla fine il problema, forse, è tutto qui. E per risolverlo non basta certo un po’ di furia rottamatrice. Non basta cacciare i dirigenti per sostituirli con i loro famigli o con i loro epigoni. Uniti di solito si vince, è vero. Ma per unirsi serve un’identità comune, servono candidati e linguaggi che parlino agli elettori di oggi e non a quelli di decenni fa. Servirebbe un partito nuovo e non la semplice sommatoria di passati gloriosi. Difficile pensare che, anche tornando alle «radici», qualcosa possa cambiare. In fondo il Pd ha passato gli ultimi tredici anni a far seccare quelle «radici».       

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