Vale forse la pena richiamare l’affare Dreyfus per dare un’idea delle proporzioni di quanto va accadendo in questi giorni: un fatto poco chiaro e dalle rovinose conseguenze personali, un’accusa frettolosa e proditoria, un contesto sociale troppo teso a riguardo di temi sociali spinosi, un capro espiatorio che sembrava costruito per l’occasione. Il polverone che ne fece seguito, del pari, sembra né più né meno ampio di quello odierno.

Manca forse oggi un po’ di fermezza da parte della stampa, uno straccio di lucidità da parte della politica, oltre alla ridda di personalità illustri di cui ahimè c’è penuria. E tuttavia, rispetto a casi passati alla storia, l’attuale velocità delle comunicazioni fa sì che di affari Dreyfus se ne abbiano una messe: casi che si susseguono a ritmi frenetici, decretando la fine di carriere gloriose, quando va bene, o la morte di qualcuno, quando va come non deve andare.

Quanto è successo a Giovanna Pedretti è sintomo di un processo di completa alterazione delle normali modalità di determinazione di ciò che è vero e ciò che è falso, in uno spazio virtuale che ha la potenza centripeta di richiamare a sé e inghiottire, fino a sostituire con la propria logica la logica di ogni altro spazio.

Un fatto di vita minima come una recensione dubbia, la reazione di chi ha il potere di destare l’attenzione, il crescendo febbrile dell’interesse del pubblico per il fatto in questione come si trattasse di controspionaggio in tempo di guerra, le conclusioni affrettate, la conclusione tragica. Un tale crescendo, come si vede dal ripetersi dei casi, non è il celeberrimo cigno nero, cioè il caso estremo e raro che supera quanto prevedibile e previsto, ma un nutritissimo stormo di cigni bianchi che conferma una logica di funzionamento.

Le modalità con cui si diffondono le notizie sulle piattaforme social hanno stravolto le forme tradizionali di informazione, fondate sul reperimento degli indizi, la verifica delle fonti, e quindi sul dibattito con cui le notizie sono costruite e le fonti utilizzate.

Il potere di chi sa crearsi un seguito – un potere che si misura in followers e likes – è quello di un portentoso faro che non solo fa luce su certi eventi (e non su altri), ma che pure è capace di determinarne la rilevanza per il pubblico e persino per la cultura del paese.

La logica influencer

I cosiddetti influencer, in ossequio all’etimo, sono quindi quelli che in inglese si definirebbero agenda setters, che da un canto scrivono l’ordine delle priorità e dall’altro lo fanno valere senza alcun bisogno di giustificarlo. Il cortocircuito che s’innesca incide per due aspetti, che emergono dai fatti di Lodi nella loro tragica prepotenza.

Da una parte, chi difende o accusa perde la capacità di misurare le conseguenze, dirette e indirette, di quanto scrive o dice. Dall’altra parte, si innestano dinamiche di potere che espongono pericolosamente chi non è protetto né ha strumenti per proteggersi. Così, il potere fatale di dire qualcosa, da parte di chi ha seguito e riconoscimento sui social media, non si distingue più dal potere, troppo spesso umorale, di dar credito o discredito, gloria e disonore, vita e morte in forza di cuori e pollici alzati.

La tragica sorte di una persona ci fornisce l’ennesima occasione per rallentare, senza strepiti e senza denunce – senza cioè far finta di uscire dal mefistofelico meccanismo per rimanervi invece invischiati mani e piedi.

Rallentare per prendere atto della necessità urgente e somma di contaminare la logica dell’informazione, o meglio dell’opinione, dei social media con forme tradizionali, polverose quanto si vuole, di accertamento del vero e della sua diffusione cauta – nella consapevolezza che, nello spazio virtuale, il vero sovente trascolora in quanto ritiene, scrive e dice chi può contare su un grande seguito.

La provocazione di White

Viene a mente l’eredità del grande storico americano Hayden White, che nel secolo scorso un po’ sconvolse chi aveva a cuore l’idea secondo cui lo studio della storia consiste nel documentare ciò che davvero è accaduto. La provocazione di White era la seguente: chi fa storia non ricostruisce i fatti, ma li costruisce. Questo perché tutti i presunti fatti che si trovano in fonti e documenti, per loro conto, dicono poco o nulla. Quanto emerge in fonti e documenti, sosteneva, resta sempre in attesa di quella costruzione dell’intrigo, dell’intreccio narrativo coerente, con cui dai fatti si trae una storia.

Quello di White non era uno scellerato attacco alla presunta oggettività del reale, né intendeva ribadire l’abusata massima nietzschiana (tanto ripetuta quanto travisata) secondo cui non esistono fatti, ma solo interpretazioni. Lo storico statunitense metteva in mora una concezione troppo ingenua della verità, come ciò che emerge da sé e di sé dà mostra, un qualcosa che può essere ostentato col dito indice teso e lustro.

Il compito di chi accerta la verità dei fatti è innanzitutto valutare come le prove documentali vengono tra loro giustapposte e misurate, per essere quindi scartate o comprovate nella loro attendibilità.

White richiamava così la nostra attenzione sull’attività di narrazione, che porta in vita non tanto i fatti, quanto il modo in cui vengono tra loro messi in sequenza perché possano avere coerenza. Nessuna storia emerge per spontaneo automatismo né senza mediazioni di chi ai fatti si interessa per qualsivoglia ragione.

White sottolineava altresì che il potere dello storico potrebbe essere limitato rispetto a quello del grande romanziere o del grande regista, e oggi dell’influencer, che imbastiscono intrighi e costruiscono intrecci con tanta più potenza quanto più grande è la loro capacità di raggiungere il pubblico. Ma la costruzione e la diffusione delle informazioni che si ritengono vere non può limitarsi a un’equazione che mette assieme narrazione e influenza.

Chi s’intesta il compito gravoso di informare, qualunque sia il mezzo, e in specie se questo è particolarmente efficace, deve peritarsi di accertare gli eventi e darne comunicazione secondo protocolli e stilemi sin troppo classici: cautela e deontologia.

Esporre il vero, che sempre risulta un po’ l’impasto di realtà, narrazione e potere di influenza, richiede una navigazione accorta di questo amalgama, come pure richiede l’intenzione di misurare la plausibilità di quanto si dice e il suo possibile effetto.

Tutto questo significa tempi lunghi, pazienza, meticolosità – triade che con la comunicazione social vive un rapporto di antitesi.

Eppure, credo che un supplemento di riflessione, assieme alla nomina di un comitato di saggi per individuare nuovi protocolli, sia raccomandabile anche per chi fa comunicazione, dentro e fuori i social.

La logica della narrazione che assume tanta più credibilità, e tanto più sembra vera, in forza dell’influenza di chi parla, come si è visto nelle settimane passate, divora quante e quanti devono tenere il ritmo e alimentare il proprio seguito. Le dinamiche di potere sono sempre ancipiti e sempre logorano sia chi lo detiene sia chi non. Ma c’è chi rischia sul fatturato, chi la propria vita. Questo è bene lo si tenga in conto.

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