«Ilaria è fiduciosa». Lo aveva dichiarato nella giornata di mercoledì Roberto Salis, padre dell’antifascista segregata nell’Ungheria di Viktor Orbán da più di un anno. 13 mesi, quasi 14 di violazioni inflitte su un corpo che fa paura perché disposto al sacrificio, capace di resistere alla deriva autoritaria del governo ungherese. La fiducia però non è bastata. Il tribunale di Budapest ha rigettato la richiesta di domiciliari, avanzata dai legali di Ilaria. Sostenendo che è ancora socialmente pericolosa e per questo merita di rimanere soggiogata, dietro le sbarre.

È l’ultima tappa di un processo di Schrödinger, un processo che c’è e non c’è allo stesso tempo. È questa l’aria che si respira nelle aule del tribunale, l’aria di uno Stato in cui le forze di polizia si presentano in quello che dovrebbe essere un luogo di giustizia come pronte a una guerra. Le immagini le conosciamo, sono le stesse di due mesi fa. Manette, catene, guinzagli. Passamontagna, armi. Tutto è come allora, come la quotidianità di sempre verrebbe da pensare.

Quando entra in aula, Ilaria sorride, ironica, di fronte all’ennesima umiliazione che è costretta a vivere sulla propria pelle.

Io non ce l’ho fatta, non ho sorriso. Ho pensato a lungo, da quando sono venuta a scoprire la sua storia, a Ilaria e alla sua famiglia, ai suoi amici che ho conosciuto e che portano avanti la battaglia per la sua liberazione. Ho pensato alla sofferenza, a quella di Ilaria e a quella di chi si è abituato a dare per scontata, nella propria vita, l’assenza di una persona, quando questa improvvisamente è scomparsa per cause di forza maggiore. O meglio, per ingiuste cause di Stato maggiore, di uno Stato che non si pone scrupoli a fare uso della violenza contro i suoi nemici.

Contro chi, nell’ingiustizia, sa trovare la forza di sorridere.

Forse perché pensa anche che una semplice smorfia sarebbe accolta come una medaglia sul petto, da chi quel sorriso cerca in tutti i modi di negarlo. E questa soddisfazione proprio non gliela vuole dare.

Il sorriso ironico di Ilaria rappresenta una crepa in questo Stato di polizia. Dove l’ingiustizia è l’unica certezza non si può sorridere, a meno di stare dalla parte del timone. Ma dalla parte del timone in questo momento non c’è Ilaria, l’antifascista Ilaria; c’è quel Viktor Orbán amico e alleato della nostra presidente Meloni. Che a lui e alle sue politiche repressive si ispira, come dimostrano i tanti provvedimenti che nell’ultimo anno e mezzo sono sfilati nelle nostre aule parlamentari, ormai diventate mero bottone di approvazione di ogni mossa dell’esecutivo.

Non sono superstiziosa, non credo a un destino già segnato. Eppure, non riesco a non vedere nell’incarcerazione di Ilaria, avvenuto a pochi mesi dall’insediamento del governo Meloni, un segno premonitore. Al quale dovremmo dare peso anche al di là della vicenda di Ilaria, al di là dei confini ungheresi.

Il caso Ilaria Salis ci dice dove stiamo andando. Se non lottiamo per lo stato di diritto, per i nostri diritti e libertà fondamentali, il destino che ci attende non sarà diverso dal suo. Subire terribili vessazioni tiranniche non per crimini politici, ma per motivi politici, presto diventerà la normalità. Come spiegare altrimenti la piega che la brutalità poliziesca e la stretta securitaria stanno imprimendo sempre di più al nostro Paese?

L’assenza della maggioranza in quell’aula, a Budapest, è un altro monito che non possiamo trascurare. Il governo poteva mandare un segnale chiaro, confortante: noi vogliamo essere qui, dalla parte di Ilaria e dei diritti. Invece, ha scelto di mancare all’appello. Simbolico ma anche concreto. Forse Ilaria sorrideva ironicamente per questo. Forse ha ragione lei. Però spero che il 24 maggio, quando ci sarà la prossima udienza, sorrideremo entrambe per un altro motivo.

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