Ilaria Salis rimarrà in carcere a Budapest: per la quarta volta, il giudice ha respinto la richiesta di modificare i termini della misura cautelare per l’italiana detenuta in Ungheria. La donna, una trentanovenne milanese militante antifascista, è accusata di lesioni personali nei confronti di due esponenti di destra (dimessi con cinque giorni di prognosi) e quello di appartenere all'organizzazione Hammerbande. Salis, che si è sempre dichiarata innocente, è stata rinviata a giudizio nel novembre scorso e la richiesta di condanna è di 11 anni.

Questo dunque è lo stato processuale di una vicenda che continua a mettere in grande imbarazzo il governo Meloni: anche ieri, infatti, la donna è stata portata in aula con catene a mani e piedi e con un guinzaglio in vita. Così era già apparsa nelle fotografie nell’ultima udienza, che avevano indignato l’opinione pubblica e costretto l’esecutivo a muoversi per chiedere il rispetto della dignità della detenuta.

Invece, nessuna delle mosse sin qui compiute da parte italiana si sono rivelate utili: la linea di Meloni e dei suoi ministri, infatti, è stata quella di riconoscere assoluta autonomia all’Ungheria e di non esercitare alcuna pressione se non quella di chiedere condizioni umane di detenzione. Il ministero della Giustizia ha negato alla difesa della donna un atto che garantisse la possibilità dei domiciliari in Italia e quello degli Esteri la possibilità di chiedere che Salis li scontasse nell’ambasciata italiana di Budapest. «I nostri ministri non hanno fatto una bella figura e il governo italiano dovrebbe fare un esame di coscienza», sono state le parole del padre, Roberto Salis. Infatti, quando la vicenda era esplosa Nordio aveva detto che gli avvocati avevano sbagliato linea difensiva chiedendo i domiciliari in Italia e che la via corretta era quella di chiederli in Ungheria, per poi procedere al passo successivo del rimpatrio. Così – a fronte dei vari no del governo – ha fatto la difesa di Salis nell’udienza di ieri ma senza risultato: dopo 13 mesi di cella, la donna rimarrà agli arresti per almeno altri due, in vista della prossima udienza di maggio.

La docente milanese lascia l'aula del tribunale ungherese in manette e catene

L’imbarazzo

L’unico esponente del governo ad intervenire è stato il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, che ha continuato a ripetere la linea sin qui tenuta dall’esecutivo. Ha detto di non condividere «la scelta delle catene» e che il giudice ha sbagliato a non dare i domiciliari, ma «politicizzare non serve, così si arriva a uno scontro con la giustizia ungherese che è libera di decidere come crede». Nella maggioranza, invece, l’unico a farsi sentire è stato il moderato Maurizio Lupi, secondo cui il caso non va politicizzato, ma «come Stato dobbiamo farci sentire perché vengano rispettati i suoi diritti».

Proprio su questo le opposizioni hanno attaccato il governo. A Budapest era presente una delegazione di parlamentari del Pd e di Alleanza verdi e sinistra e Laura Boldrini ha sottolineato come «in aula c'era nemmeno un parlamentare di maggioranza. Sono patrioti e garantisti a fasi alterne, quando un imputato è amico loro», mentre Nicola Fratoianni ha chiesto che «il governo Meloni faccia qualcosa per riportarla a casa. E dica al suo amico Orban che questa sua idea della giustizia e del diritto sta fuori dell'Europa».

Una buona sintesi del fallimento della linea governativa è arrivata dall’Italia, con la senatrice della Svp, Julia Unterberger, che ha dato ragione al padre di Salis: «La strategia suggerita dal ministro della Giustizia sui domiciliari in Ungheria, rinunciando preventivamente alla richiesta di rimpatrio e senza neppure avanzare l’offerta di scontare i domiciliari in ambasciata, si è rivelata fallimentare» e «in più riprese è stato detto che non bisognava alzare la voce, che non si doveva trasformare la vicenda in uno scontro politico, che i buoni uffici del governo italiano con quello ungherese avrebbero portato a una soluzione. Nulla di tutto questo è accaduto». Ora, secondo le opposizioni, la strada maestra deve essere quella di chiedere il deferimento dell’Ungheria alla Corte europea.

Eppure, allo stato attuale non ci sono segnali che il governo italiano si stia muovendo in alcuna direzione. Messo da parte ogni aspetto istituzionale, nella maggioranza c’è la consapevolezza che il caso Salis non sia particolarmente sentito dal suo elettorato di riferimento e qualsiasi passo falso con l’alleato Viktor Orban sarebbe complicato da gestire nelle sue conseguenze. Meglio, dunque, tenere un profilo basso e ribadire la sovranità della giurisdizione ungherese, senza entrare nel merito delle possibili violazioni del diritto europeo.

E pazienza se proprio oggi i giudici italiani abbiano descritto nero su bianco i limiti della giustizia ungherese. La corte d’appello di Milano, infatti, ha rigettato la richiesta di estradizione  in Ungheria di Gabriele Marchesi, coindagato di Salis e ai domiciliari in Italia e hanno anche revocato la misura cautelare nei suoi confronti. La richiesta è stata negata, perchè esiste il rischio concreto di trattamenti «inumani e degradanti» di Marchesi, inoltre la corte ungherese non avrebbe rispettato il principio di proporzionalità tra le esigenze di sicurezza e punibilità e il rispetto dei diritti fondamentali.

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