«Secondo il giudice, che ha respinto la richiesta di domiciliari per l’attivista di estrema sinistra Ilaria Salis, tredici mesi di detenzione non possono dirsi in alcun modo eccessivi». Lo riporta János Kőházi, cronista di Magyar Nemzet, ed è un po’ come sentir sussurrare il premier ungherese, visto che la maggior parte dei media del paese – e anzitutto questo importante quotidiano che si definisce filogovernativo – sono nella sua morsa.

Già nelle scorse settimane esponenti del governo di Viktor Orbán si erano lanciati in accuse contro la 39enne, come se fosse già colpevole; eppure il processo è tutt’altro che finito. Il caso Salis è ormai iperpoliticizzato. «Il clima è persecutorio» per dirla con Riccardo Noury di Amnesty International, che infatti mette in allerta sulla «iniquità del procedimento»: ministri «e stampa di governo portano avanti narrazioni criminalizzanti», mentre l’Ungheria di Orbán continua a sbattere in faccia all’opinione pubblica il trattamento degradante di una donna tenuta al guinzaglio. «Qui la colpa di mia figlia è di essere antifascista», dice il padre Roberto Salis.

Perché accanirsi

Se si uniscono i puntini di questa storia – se si analizza il controllo governativo sui media, se si aggiunge lo squilibrio fra poteri, se si fa l’autopsia al sistema Orbán, dalle condizioni carcerarie fino alle ingerenze del governo sulle vicende giudiziarie – il quadro è impietoso, perché l’Ungheria orbaniana è una autocrazia. Ma ciò non basta a spiegare l’accanimento di tutto questo sistema contro una donna italiana, visto peraltro che Fidesz, il partito del premier ungherese, attende speranzoso di trovare una collocazione europea dentro la famiglia conservatrice di Giorgia Meloni. C’è addirittura chi – come Fareed Zakaria sulla CNN o Meloni stessa – presenta la premier italiana come la pifferaia magica in grado di rimettere il serpente orbaniano al suo posto.

Quindi perché scagliarsi contro un’italiana? La prima, inevitabile risposta, è che Meloni non è affatto la leader che ammansisce Orbán, semmai una vecchia alleata che – al di là delle fasi e delle giravolte tattiche – condivide con il despota ungherese una comune strategia. Non a caso il milieu meloniano da tempo va ad addestrarsi a Budapest; i think tank d’area nostrani hanno scambi continui con quelli orbaniani. E ciò porta alla seconda risposta. Proprio come la duplice Giorgia Meloni, che dietro le quinte viene a patti coi Popolari europei ma al contempo tiene acceso il proprio elettorato con la retorica sui migranti o contro il Green Deal, e anzi persino più di lei, Viktor Orbán imbastisce una macchina della propaganda – anzitutto per il consenso interno – della quale lui stesso poi deve tener conto.

Effetto valanga

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E dire che in questi giorni il premier ungherese ha ben altri grovigli da sbrogliare. C’è un ex organico del sistema, Péter Magyar, che ha preso a lanciare accuse, addirittura rivelando registrazioni audio della sua ex moglie Judit Varga, che era stata ministra della Giustizia orbaniana e che avrebbe dovuto guidare la lista di Fidesz alle europee se da febbraio non si fosse innescata una serie di scandali. Tra le cose rivelate da Magyar – neofondatore di un partito e nella sua nuova veste di capopopolo – c’è proprio l’ingerenza governativa su casi giudiziari come quello Schadl-Völner, il più clamoroso caso recente di corruzione. Un cronista di un giornale di opposizione, che preferisce restare anonimo perché «già in precedenza sono stato attaccato dalla propaganda», spiega che «Orbán si sta muovendo con attenzione riguardo a ciò che lui direttamente comunica sul caso Salis, perché vuol entrare nel gruppo di Meloni, e del resto in Ungheria non è questo il grande tema del momento; qui si parla di Varga che accusa Magyar e viceversa...».

Orbán su Salis infatti non parla. Questo giovedì dal ministero degli Esteri ungherese hanno pure sostenuto che «il governo non interferisce in nessun modo nelle competenze della magistratura», il che peraltro alla luce delle rivelazioni di Magyar stride.

Ma c’è una questione fondamentale: anche quando gli affondi del governo non partono in sincronia con le udienze, e anche se non è direttamente il premier a farli, ormai la palla di neve della propaganda è già valanga.

Portare agli estremi

A fine febbraio due esponenti del governo orbaniano – il ministro degli Esteri Péter Szijjártó e Zoltán Kovács, il portavoce internazionale – avevano già inasprito il clima sul caso Salis, prendendo a strattoni i media italiani – e indirettamente pure il governo Meloni – e dando duri giudizi prematuri: «Questa signora, presentata come una martire in Italia, è venuta in Ungheria con un chiaro piano per attaccare persone innocenti per le strade come parte di un'organizzazione di sinistra radicale».

Szijjártó è frequentatore abituale del Cremlino, dal quale ha ricevuto pure medaglie onorifiche, e Zoltán Kovács si occupa di internazionalizzare la propaganda orbaniana. I due a quanto pare sono più duri con Salis che con Putin, ma una cosa è certa: non si muoverebbero mai in contraddizione con le volontà di Orbán. Non per caso, il primo affondo di Zoltán Kovács contro Salis era partito pubblicamente, sui social, poche ore prima di un incontro tra il premier ungherese e la sua omologa italiana, nel quale i due dovevano trattare (ufficialmente) il Consiglio europeo del giorno dopo (quello del 1 febbraio) ma soprattutto Orbán lavorava al sì all’ingresso nei Conservatori europei.

Da tempo il governo ungherese monta la retorica contro «gli estremisti di sinistra», e come ha testimoniato a Domani il deputato ungherese di sinistra András Jámbor, «l’esecutivo Orbán finanzia i neonazi e aizza campagne d’odio». Questo giovedì davanti al tribunale un gruppetto di neonazi è andato a minacciare il comitato Ilaria Salis. Una volta fatta partire la macchina – di propaganda – è difficile tirare il freno. E soprattutto, bisogna volerlo.

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