Che la misura del tempo sia relativa rispetto alla nostra posizione lo sappiamo dal 1905 grazie ad Einstein, ma una legge che dimostri il suo variare anche rispetto alle forme di governo deve ancora essere elaborata. Eppure, le prove empiriche non mancano: basti pensare alla visita di Giorgia Meloni in Tunisia, in cui l’urgenza della premier di chiudere un accordo sull’immigrazione si è scontrata con la capacità di temporeggiare del presidente Saied, imperturbabile rappresentante di una nazione al collasso.

Il tempo degli statisti

È intuitivo che le autocrazie possano permettersi calendari più dilatati rispetto alle democrazie: mentre queste ultime vivono un costante dinamismo, un autocrate può congelare il tempo in nome di una qualche verità inoppugnabile di cui si fa interprete. Se pensiamo alla celeberrima frase attribuita a De Gasperi per cui «un politico guarda alle prossime elezioni mentre uno statista alla prossima generazione», si può constatare che è più facile fare lo statista se si detiene il potere assoluto.

Nel teorema sul rapporto tra tempo e governo c’è poi un’altra variabile da considerare: più passano gli anni, più le democrazie moderne si devono adattare ad una percezione cronologica in costante accelerazione. È lontanissima l’epoca in cui Aldo Moro poteva permettersi di dilazionare indefinitamente l’incalzante invito di Ciriaco De Mita per una possibile apertura a sinistra: «Bisogna convincere prima la chiesa, poi gli americani e infine l’elettorato moderato del sud» spiegava il presidente della Dc. Una saggia cautela all’apparenza inerziale conservatasi a lungo in Italia: forse è anche per questo che Mario Draghi dopo il suo insediamento realizzò che tutti gli orologi d’epoca di palazzo Chigi erano fermi.

Il flusso incalzante

Oggi però la strategia di Moro sarebbe anacronistica. Di fronte allo sviluppo esponenziale dell’innovazione in ogni campo, persino il presente ci è diventato stretto. Siamo obbligati a rincorrere il futuro. A velocizzarsi non sono state solo le informazioni, ma la nostra stessa percezione di urgenza di cambiamento. Sentiamo che, se non assimiliamo e condividiamo ogni novità già dopo pochi istanti dal suo concepimento, rischiamo di rimanere esclusi dallo sviluppo economico e sociale che sarà in grado di generare.

Una velocità che sembra essere diventata eccessiva per la politica contemporanea: cosa serve deliberare un piano capace di produrre migliaia di posti di lavoro entro due anni quando magari nell’arco di pochi mesi l’avvento di una nuova intelligenza artificiale cambierà drasticamente il modo di fare impresa? Non serve neanche più che i politici pensino alle prossime elezioni: l’orizzonte diventa il prossimo sondaggio, la prossima valutazione di un’agenzia di rating, la prossima applicazione in grado di rivoluzionare la nostra vita.

Sembra comprensibile, quindi, che anche nelle democrazie più liberali si instilli il desiderio di riforme capaci di controllare questo flusso incalzante, magari con modifiche istituzionali che permettano di consolidare il potere in funzione di una maggiore stabilità. Ma è bene ricordare che nessuna forma di governo potrà mai davvero regolare il tempo. Quando crollano le autocrazie, che siano incarnate da un leader o da una idea, crollano tutte le verità che rappresentano. Il loro tempo si annulla e si riparte da zero. Al contrario, in una democrazia, la caduta di una leadership non intacca il principio che la sostiene: le idee possono essere riprese, modificate, o perfino eliminate dopo un’elezione, ma saranno ad ogni modo riconosciute come il fondamento da cui ripartire. Si rivolta la clessidra e la stessa sabbia continua a fluire, anche se magari in senso inverso.

Così, invece di affannarci alla ricerca di formule capaci di fermare il tempo, basterebbe forse riconoscere che la democrazia offre già i presupposti per progettare un futuro anziché subirne l’incertezza. Allora, magari, ricominceremo a ricaricare di tanto in tanto gli orologi ormai fermi da anni.

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