Aveva la faccia di uno trascinato al patibolo, si è letto nelle cronache da Bisceglie a proposito di Antonio Decaro, con più precisione nelle foto lo sguardo ricordava quello, immortale, di Alberto Sordi nella scena finale del film di Mario Monicelli La Grande Guerra prima della fucilazione.

Eppure Decaro era appena stato candidato alla presidenza della regione Puglia, con la vittoria in tasca. Ma lo psicodramma che ha preceduto il risultato, la fragilità dimostrata lo ha reso unfit per un ruolo di leadership nazionale che qualcuno ipotizzava di costruire per lui.

Accanto a lui, invece, la segretaria del Pd Elly Schlein sprizzava soddisfazione. Legittima. Per la prima volta, da almeno quindici anni, nelle regioni al voto in autunno (sei più la Valle d’Aosta) si è ricostruita un’alleanza di centrosinistra, la stessa dalle Dolomiti allo Stretto.

Sabato è stato il Pd su Instagram ad annunciare per la prima volta ufficialmente i volti e i nomi dei candidati presidenti di regione (Matteo Ricci nelle Marche, Pasquale Tridico in Calabria, Eugenio Giani in Toscana, Antonio Decaro in Puglia, Roberto Fico in Campania e Giovanni Manildo in Veneto), compresi quelli di provenienza 5 Stelle, anche Fico in Campania, su cui non c’era finora nessuna decisione. Più dei singoli nomi vale l’insieme.

Una rivendicazione piena della regia dell’operazione per Schlein. Una leader che a dispetto di attacchi di ogni tipo avanza fredda come un’equilibrista sopra una vasca infestata di piranha. Che è più solida di certi maschi labili. E che ha messo il volto sui passaggi più laceranti, la transizione in Puglia e in Campania per dieci anni dominate da personaggetti come Emiliano e De Luca.

Il nuovo centrosinistra è solo un lontano discendente di quello storico degli anni Novanta-Duemila dell’Ulivo di Prodi, in competizione con i partiti che componevano la coalizione, i Ds di D’Alema, la Margherita di Rutelli, Rifondazione comunista di Bertinotti. Ma non ha più nulla a che fare neppure con il centrosinistra degli anni Dieci di questo secolo, fondato sul Pd che stava al governo senza aver vinto le elezioni, il partito della Nazione fondato alla Leopolda di Renzi, contro cui, in fondo, il Movimento 5 Stelle trovò la sua ragione sociale, conquistò consensi e vinse.

Il nuovo centrosinistra mette insieme gli eredi di quelle stagioni: il Pd di Schlein, con le sue molteplici correnti, il Movimento 5 Stelle di Conte, Alleanza Verdi Sinistra di Fratoianni, Bonelli (e Vendola), più Italia Viva di Matteo Renzi, a differenza di quanto accadde in Liguria l’anno scorso i candidati dell’ex rottamatore sono ovunque nella coalizione che si oppone alla destra meloniana, senza creare problemi di rigetto. Più i tanti calendiani anche senza Carlo Calenda.

Fino a poco tempo fa rifiutavano di farsi fotografare insieme. E in tanti rifiuteranno anche la definizione di centrosinistra. Ma lo schieramento alternativo alla destra prende per la prima volta corpo, non ancora anima, né progetto, la sua semplice esistenza è la novità politica dell’estate che finisce.

È bene non farsi troppe illusioni. La destra troverà ora il modo di schierare i suoi candidati, anche in Veneto, è favorita nelle prime regioni al voto che già governa, le Marche e la Calabria. La destra è unita a Roma da trent’anni, ha sempre gli stessi partiti al vertice con pesi rimescolati e pochissima nomi sui territori.

Il centrosinistra, al contrario, sul piano nazionale a ogni giro fatica a comporre l’alleanza, in compenso è forte di una varietà di personaggi sui territori, anche troppa (i cacicchi). E poteva contare, almeno fino a poco tempo fa, su una classe dirigente diffusa. Ne faceva parte Paolo Nerozzi, mancato ieri: a lungo nella segreteria confederale della Cgil e poi senatore del Pd, figura atipica e anti-conformista di organizzatore-intellettuale di cui si sente la mancanza.

Sul piano nazionale, i sondaggi fotografano ormai da mesi gli stessi numeri, con qualche decimale di punto in più o in meno. Un apparente immobilismo che favorisce chi governa. C’è un pezzo di paese assuefatto a Giorgia Meloni, capace di trasformare perfino Armani in un campione del sovranismo sulle pagine del primo quotidiano italiano.

Il risultato delle prossime elezioni regionali non potrà essere valutato solo con le bandierine, con il numero delle regioni conquistate, ma anche con le percentuali dei partiti e delle coalizioni. Con l’unità del nuovo centrosinistra i collegi del Rosatellum (soprattutto nelle regioni del Sud) diventano tutti contendibili, il risultato a valanga del 2022 per Meloni diventerà un lontano ricordo.

Per questo la destra pensa di riscrivere la legge elettorale, come fece Berlusconi nel 2005 con il Porcellum, all’indomani (guarda caso) di una sconfitta alle regionali di quell’anno, compresa la Puglia in cui a sorpresa Vendola rovesciò Fitto. A conferma che i sondaggi si possono ribaltare.

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