Nel 2010 Pier Luigi Bersani e Gianfranco Fini si “sfidarono” in una trasmissione Rai, stilando un elenco di valori di destra e di sinistra ispirato alla celebre canzone di Giorgio Gaber sul tema. Anche se il risultato fu una lunga serie di slogan, l’elettore di allora non avrebbe avuto difficoltà a identificarsi da una parte o dall’altra di quella lista.

Dodici anni dopo è invece palpabile lo smarrimento del cittadino in una campagna dove discussioni su tattiche, alleanze e candidati sembrano aver preso il posto della programmazione politica. Persino l’acclamata “agenda Draghi” è, per ammissione dello stesso premier, non un programma, ma piuttosto un metodo.

A mancare sembra la consapevolezza della “cultura politica” che governa certe scelte, cioè gli elementi distintivi del principio dell’alternanza in una democrazia. Forse per orientarci sarebbe utile tornare alle origini e chiedersi come la “cultura di destra” e la “cultura di sinistra” rispondano alla domanda base della società moderna, vale a dire: “Come è possibile vivere insieme senza rinunciare a ciò che si è?”.

La frase implica l’esistenza di due spazi distinti: da una parte c’è, appunto, il “vivere insieme” e quindi darsi leggi e ordinamenti collettivi, dall’altra la necessità di essere “ciò che si è”: ovvero la necessità di poter esprimere la propria individualità. Il primo spazio ha a che fare con l’agenda sociale, il secondo con quella dei diritti. La differenza tra destra e sinistra è anche nel modo in cui queste due “culture” interpretano i due spazi in maniera alternativa e speculare.

Dirigismo e liberismo

La cifra culturale della destra è di tendere alla maggior libertà individuale possibile nella costruzione dell’architettura sociale. Ronald Reagan, sicuramente la più efficace incarnazione del neoliberismo nell’età moderna, sosteneva che i cittadini sanno meglio di qualsiasi governo ciò di cui hanno bisogno.

Da qui l’esigenza di un libero mercato, di incentivare l’iniziativa e la responsabilità individuale e, di conseguenza, la mancanza di un’agenda sociale a livello centrale. Di fronte a queste tematiche di convivenza, lo stato fa un passo indietro lasciando ognuno libero di provvedere a sé stesso.

È interessante notare come, a questa libertà nello spazio della agenda sociale, non ne corrisponde altrettanta quando si parla del modo in cui l’espressione della propria individualità si riflette nei propri diritti. Il conservatorismo di destra tende a invocare autorità superiori capaci di dettare l’etica: dalla religione, ai valori della tradizione, all’idea di patria.

Specularmente, la cultura di sinistra sostiene che l’architettura sociale ed economica alla base della convivenza debba essere regolata. E se l’autorità definisce i limiti dello sviluppo individuale e coordina gli sforzi per il suo progresso, possiamo, invece, parlare di liberismo etico e dei diritti. È qui che le istituzioni fanno un passo indietro, lasciando scegliere all’individuo di definirsi per “ciò che si è”, ad esempio in termini di identità personali, tradizioni o senso di appartenenza.

Riassumendo, con buona pace di Gaber, per la destra la risposta alla domanda iniziale si traduce in “liberismo economico-sociale” e “dirigismo valoriale”; per la sinistra in “dirigismo economico-sociale” e “liberismo valoriale”.

È una semplificazione, ovviamente esistono infinite sfumature tra queste posizioni. Lo scopo di questo articolo non è certo individuare la migliore, ma piuttosto porsi due domande: gli elettori riusciranno a ritrovare questi elementi fondanti all’interno dell’offerta politica di oggi? E soprattutto: gli stessi rappresentanti della politica riusciranno a ricordarseli nei loro programmi? Se la risposta sarà negativa, il rischio è che lo scollamento tra la politica e i cittadini si faccia ancora più ampio di fronte alle urne.

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