In Iran è tornata a esplodere la protesta popolare. Le manifestazioni di piazza si sono diffuse in tutte le principali città del Paese alla notizia della morte della giovane Mahsa Amini, il 16 settembre scorso.

La ventiduenne era stata arrestata a Teheran dalla polizia morale del regime, accusata di «abbigliamento non adeguato» per non aver indossato correttamente l’hijab, il velo islamico che secondo la legge iraniana le donne devono indossare obbligatoriamente.

A pochi giorni dal suo arresto Mahsa Amini è deceduta, probabilmente a seguito di un pestaggio subito nella stazione di polizia in cui era stata condotta.

La morte della giovane donna iraniana ha scatenato la rabbia nel Paese. Vari sono i centri urbani in cui si è assistito a manifestazioni di protesta, a partire dalla regione del Kurdistan iraniano di cui la vittima era originaria.

Lo scoppio delle proteste

Iranian Presidency Office via AP

A una settimana dall’inizio delle contestazioni il regime ha risposto come sua consuetudine: blocco di internet e brutale repressione delle manifestazioni, provocando per il momento più di trenta vittime.

Pur se con una matrice diversa, di natura eminentemente socio-valoriale, le proteste in corso si inseriscono in un trend ciclico di instabilità interna che ha caratterizzato gli ultimi due decenni di vita della Repubblica islamica; dal movimento verde del 2009 alle manifestazioni di natura economica del 2019-2020 e dell’estate del 2021.

Come puntualmente accade in tali occasioni, una delle questioni dirimenti a cui osservatori e analisti sono chiamati a dare risposta concerne la forza destabilizzante di questi eventi per la sopravvivenza sul piano interno del regime nato dalla rivoluzione del 1979. Tradotto, ci si chiede se i tempi siano maturi per un cambio di regime.

Discostandosi da questo piano d’analisi, meno indagata ma meritevole di una medesima attenzione è tuttavia anche la prospettiva opposta: in che modo Teheran può sfruttare a proprio favore tali eventi? Quali le ramificazioni sul piano internazionale?

La manipolazione narrativa di Teheran

Come frequentemente accade, dinnanzi a movimenti di contestazione interna i vertici istituzionali iraniani puntano il dito contro un capro espiatorio esterno, accusato di cospirare contro i principi della rivoluzione. I due indiziati principali? Stati Uniti e Israele.

A poche ore di distanza dall’inizio delle proteste il corpo delle guardie della rivoluzione islamica ha pubblicato un comunicato in cui si accusava «il fronte controrivoluzionario e i nemici dell’Iran» di celarsi dietro le contestazioni. Un adagio ripetuto dagli organi di stampa governativi che tentano di manipolare la percezione degli eventi, internazionalizzando le cause dei disordini, oltre che minimizzandone la portata.

Dietro la gestione della crisi da parte del regime si cela una strategia ben precisa; non quella di contestare sul piano fattuale l’esistenza delle proteste, difficile da negare nell’epoca dei social media, quanto piuttosto quella di “brandizzare” l’instabilità sul piano comunicativo, imponendo la propria narrazione.

Invero con dubbio successo, l’obiettivo di Teheran si risolve quindi nel tentativo di capitalizzare a proprio favore l’andamento delle proteste, provando a ricompattare intorno alla causa della rivoluzione un solido consenso interno, così come un «fronte della resistenza» internazionale, appellandosi alla lotta contro l’ingerenza di potenze esterne.
La dura repressione viene non a caso accompagnata da contro-manifestazioni artatamente organizzate per mostrare la salute di cui gode il regime e le città iraniane interpretate alla stregua di un campo di battaglia in cui combattere contro un nemico invisibile.

Le ragioni profonde della strategia iraniana

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Nella ricerca di un intreccio tra la dimensione interna e internazionale promosso dall’establishment iraniano non vi sono solo motivazioni di corto respiro. Dietro di essa giacciono piuttosto ragioni di fondo riconducibili alla genesi stessa della Repubblica islamica.

Dal punto di vista iraniano, la rivoluzione del 1979 è primariamente giustificata come una lotta di liberazione nazionale che pose fine a una monarchia manovrata da potenze esterne.

L’antiamericanismo e l’antisionismo, così come la connotazione terzomondista, sono tratti costituenti dell’attuale regime iraniano, in una certa misura prevalenti rispetto alla connotazione islamica – epidermide e non scheletro della rivoluzione.

Seppure dinnanzi a una tensione irrisolvibile, alla radice dell’afflato rivoluzionario il particolarismo nazionalista prevale sull’universalismo islamista.

Pertanto, agitare lo spettro dell’ingerenza esterna, internazionalizzando le cause dell’instabilità domestica, significa per il regime iraniano puntellare la retorica che ne giustifica l’esistenza.

Tanto più in una fase critica per le sorti dell’ordine internazionale liberale a guida americana a cui l’Iran revisionista si oppone, scorgendo in Israele il suo massimo rappresentante in Medio Oriente.

La risposta di Israele

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Dal canto suo Israele tenta di ricambiare con la stessa moneta la strategia iraniana, partecipando attivamente alla guerra delle percezioni.

Dal suo punto di vista, l’indebolimento di un regime come quello iraniano, che ne anela l’estinzione, è un obiettivo strategico.

In questa fase tuttavia lo Stato ebraico non si immagina di poter destabilizzare la Repubblica islamica a tal punto da causare una sua implosione.

Pertanto, in relazione ad eventi come le recenti proteste, Israele si fa promotore di una strategia più circoscritta che ambisca a far deragliare i negoziati sul nucleare iraniano, il dossier oggi più impellente ai suoi occhi.

Per far ciò, il suo obiettivo è quello di amplificare il senso di inaffidabilità di Teheran dinnanzi all’opinione pubblica internazionale per irrigidire la posizione diplomatica di Stati Uniti e Paesi europei.

Sfruttare la risonanza mediatica delle immagini di violenza provenienti dall’Iran significa metter pressione su quegli attori che con Teheran vogliono ancora negoziare.

In questo quadro va contestualizzato il richiamo alle proteste fatto dal primo ministro israeliano nel suo intervento all’assemblea generale delle Nazioni Unite.

«Il loro odio è uno stile di vita», ha affermato Yair Lapid in riferimento alla repressione del regime. A conferma di come la guerra occulta che si combatte in Medio Oriente non è fatta solo di missili, droni e nucleare ma anche di opposte narrazioni.

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