Per l’ong Iran human rights sono almeno 31 i civili uccisi durante le manifestazioni che dal 16 settembre coinvolgono tutto l’Iran, in seguito alla scomparsa di Masha Amini. La 22enne curdo iraniana è morta dopo essere stata arrestata dalla “polizia morale”, con la colpa di aver fatto scivolare una ciocca di capelli fuori dallo hijab, il velo sacro che secondo la legge islamica ogni donna deve indossare in pubblico.

E deve farli con particolare rigore se vive nell’Iran di Ebrahim Raisi, presidente dall’agosto 2021 e autore di un particolare inasprimento della sorveglianza sui comportamenti e l’abbigliamento delle donne.

La morte di Masha Amini

Il volto della Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamene’i, viene stracciato dai manifestanti che si accaniscono contro i cartelli appesi per le vie delle città. Non solo Teheran, ma anche Mashad, Tabriz, Kish, Isfahan, Rasht. Dal nord al sud dell’Iran donne e uomini si riuniscono nelle piazze per gridare «Morte al dittatore!» e si trovano davanti la brutale repressione della polizia di regime.

Mahsa Amini, il cui nome curdo è Jhina, è stata arrestata il 16 settembre mentre stava viaggiando, in auto con la sua famiglia, dal Kurdistan iraniano verso la capitale Teheran, dove avrebbe incontrato alcuni parenti. La polizia l’ha fermata e caricata su un furgone con l'accusa di aver indossato il velo hijab in modo "improprio". A pochi giorni di distanza la ragazza è morta.

Questo ha portato fin da subito diversi attivisti ad affermare con convinzione, basandosi sul racconto di testimoni presenti al momento dell’arresto, che Masha ha subito percosse e che a ucciderla è stato un colpo alla testa. Il racconto è stato smentito dai funzionari di polizia, i quali sostengono che la morte della ragazza sia avvenuta per cause naturali, forse per infarto.

Una versione a cui non credono i familiari, che al momento dell’arresto – riporta Hrana, un’organizzazione iraniana per i diritti umani – sono stati informati dagli agenti di polizia che la giovane sarebbe stata rilasciata dopo una “sessione di rieducazione”.

Gli scontri

La notizia fa il giro del web e la rabbia si trasforma in una reazione collettiva e spontanea. Il 21 settembre i media statali iraniani riferiscono che i raduni nelle strade si sono estesi ad almeno quindici città. La polizia inizia a usare gas lacrimogeni e a disperdere le folle.

Secondo l’Irna, l’agenzia di stampa ufficiale, i manifestanti scagliano pietre e oggetti contro le forze di sicurezza e danno alle fiamme i veicoli della polizia, mentre cantano slogan anti governativi. Nel sud dell’Iran, sulla facciata di un edificio brucia un’enorme immagine del generale Qassem Soleimani, il comandante delle guardie rivoluzionarie ucciso da un drone americano nel 2020.

La morte di Mahsa Amini ha il potere di un simbolo che unisce migliaia di persone nella richiesta di abolire la polizia morale e mettere fine alle ingerenze dello stato teocratico nella vita privata dei cittadini.

La risposta è durissima. Amnesty International parla di manifestanti, non tutti adulti, uccisi da proiettili di metallo sparati da distanza ravvicinata. Le autorità iraniane, che contano morti anche tra le fila delle forze dell’ordine, negano ogni coinvolgimento nell’uccisione di chi protesta.

Sotto osservazione 

E se il dissenso oltrepassa i confini delle piazze e si estende sui social media, la repressione fa altrettanto. Nella giornata di ieri il governo di Teheran ha disattivato internet in alcune aree del Kurdistan e della capitale e ha bloccato l’accesso a Instagram e Whatsapp.

Raisi vuole depotenziare alla radice un movimento che con hashtag e video dimostrativi sta attirando l’attenzione di media e governi in tutto l’occidente, con il rischio di ripercussioni anche sul piano della politica internazionale.

Mercoledì parlando all’assemblea generale delle Nazioni Unite, il presidente americano Joe Biden, intervenuto poco dopo il discorso del leader iraniano, ha salutato i manifestanti e sottolineato la «solidarietà alle donne iraniane». Ieri anche la ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock, ha denunciato «il brutale attacco contro le donne coraggiose», aggiungendo che la Germania intende portare «questa violazione dei diritti delle donne e quindi dei diritti umani davanti al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite».

Il precedente

Le manifestazioni in corso nel paese mediorientale sono le più importanti registrate dal 2019, quando si sollevò un’enorme protesta di massa contro il rincaro del carburante.

Raisi, all’epoca neo eletto capo della magistratura, ebbe un ruolo di prim’ordine nel fermare la sommossa, facendo arrestare migliaia di persone – molte delle quali si trovano ancora in carcere – in un contesto di pesanti scontri tra civili e forze dell’ordine in cui, secondo Reuters, morirono circa 1500 persone.

E anche allora le autorità smentirono, coprendo col silenzio gli effetti di un crescente scollamento tra governanti e governati. Tra cieco rigore della tradizione e legittime pretese di libertà individuale.

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