L’articolo 3 della Costituzione dichiara che la Repubblica italiana stabilisce l’uguaglianza civile e politica di tutti i cittadini, «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Quando entrò in vigore, il primo gennaio 1948, la Carta sembrò cominciare una nuova èra e chiudere con il recente passato fascista. In realtà, la nuova Italia era nata vecchia sotto molti riguardi, certamente quello della razza a giudicare dalla legge sulla cittadinanza del 1992, dal rifiuto nel 2015 di riconoscere la cittadinanza a chi è nato nel nostro paese da genitori non europei, dalle decisioni ministeriali in materia di immigrazione, e infine dalle pulsioni razziste spesso violente presenti in tutto il paese.

La Repubblica non ha rispettato le sue promesse. Non basta una Costituzione bella. Del resto, il lascito razzista alla Repubblica proveniva sia dal colonialismo fascista che da quello liberale: un’eredità ingombrate e mai messa seriamente in discussione. Questo emerge dal lavoro ben documentato di Silvana Patriarca, Il colore della Repubblica. “Figli della guerra” e razzismo nell’Italia postfascista, uscito in questi giorni da Einaudi. Scrive l’autrice: «Se nella nuova Repubblica democratica l’idea di razza non era più accettabile se applicata agli ebrei (che non per questo smisero di essere bersaglio del pregiudizio antisemita nelle sue diverse forme cattoliche e secolari), la stessa idea continuava a essere accettabile se applicata a persone dalla pelle più scura. L’identificazione della razza scomparve dai registri anagrafici e dalle carte d’identità, ma il pensiero razziale non scomparve e gli stereotipi razziali continuarono ad avere ampia diffusione nella società italiana».

Figli della colpa

Per provare la forza di questo stereotipo e le conseguenze pesanti sulla vita delle persone che lo subiscono, Patriarca studia un fenomeno che ha davvero poco interessato la storiografia repubblicana: quello dei bimbi nati da relazioni, sia violente come nei casi di stupro sia volontarie (la maggioranza), tra donne italiane e soldati neri, molti dei quali parte dell’esercito alleato (soprattutto afroamericani) che stanziarono in Italia dal 1943 fino al 1947.

Bambini che avevano un colore bruno e capelli biondi (come quello della foto in copertina) e che vennero identificati con termini – “misti”, “meticci”, “birazziali”, “mulattini” – che presupponevano una purezza di colore (benché in italiano il colore bianco è un non colore) sporcata dalla mescolanza delle razze.

La razza, spiega molto bene Patriarca, «non è una realtà biologica né una categoria naturale, è un costrutto sociale, un “modo di creare” le persone, ponendole dentro categorie prestabilite e arbitrarie». E ha conseguenze reali sulla vita delle persone.

Gli italiani sono in Europa tra i meno bianchi, i più “scuri”, anche perché la penisola è composta di popolazioni meticciate, per secoli teatro di conquista e insediamento di vari eserciti e razze. Eppure, pochi decenni di stato-nazione hanno avuto la forza di seppellire un passato lungo e di consolidare una mentalità resistente. Per tanto, rispetto alla superiorità della razza italica (bianchissima!) quei bambini scuri vennero trattati come inferiori, con l’aggravante di essere figli di una colpa originaria: quella delle «ragazze facili» che avevano fatto «gustare carne bianca» ai vincitori, scriveva un quotidiano toscano.

Che cosa fare di questo “problema”, delle poche migliaia dei figli della colpa? Lo stato delegò il “problema” alle istituzioni religiose, che si impegnarono a lavare l’onta del frutto dell’anomalia della “coppia mista”, particolarmente in alcune zone del paese (alto Lazio, parte della Toscana e della Romagna).

Emarginazione civile

Luigi Gedda, medico e dirigente dell’Azione cattolica, propagandista della fede e attivissimo negli anni Settanta nella campagna contro il divorzio, in un lavoro che accampa valore “scientifico” propone la teoria dei «mulattini» come appartenenza razziale non italiana, anche se nati da madri italiane. Non potendo trasferire i «mulattini» nel paese da dove il seme nero era venuto, a risolvere il “problema” restava l’orfanotrofio e l’emarginazione civile. La Repubblica era nata colorata ma nascondeva il colore.

Tutto cominciò nell’Assemblea costituente, dove destra e sinistra si diedero la mano a sostenere un’idea di inferiorità dei «meticci»: un deputato del Partito repubblicano disse che «i mulatti sono scarsamente resistenti al logorio ambientale dei nostri climi e molto vulnerabili dal dente delle malattie». Molto scientifico. Mai contestato dai comunisti e dai socialisti.

Un clima meno pesante si respirò negli anni Settanta. La pubblicazione nel 1980 di Nero di Puglia di Antonio Campobasso, sembrò finalmente aprire la questione della promessa di uguaglianza senza distinzione di “razza”.

Campobasso era un «figlio della guerra, dell’incontro causale di una donna pugliese e di un negro californiano» e soffrì le pene dell’inferno per questa «colpa». Il libro vinse un premio e destò interesse, ma alla fine del razzismo non si parlò; la storia di Campobasso restò un fatto personale che non servì a fare interrogare gli italiani sulla loro storia recente e la loro identità.

Scrive Patriarca che con il razzismo come col fascismo la Repubblica si impegnò in un coerente processo di seppellimento delle responsabilità. Né defascistizzazione né derazzializzazione. “Italiani brava gente”. Un abito mentale che ha fatto leva sulla mediocrità del bene e del male perpetrati, e poi sull’impegno assistenziale delle opere di carità che si prendevano cura degli inferiori. Il Concilio Vaticano II fu severo col razzismo, ma la mentalità non era facile al mutamento.

La legge del 1992

Il lascito del colonialismo e del fascismo non si è materializzato soltanto con i “mulattini” ma con tutti i “non bianchi”, come la legge del 1992 mostra, che riconosce la doppia cittadinanza agli italiani immigrati e fa questo rafforzando il principio del ius sanguinis. Associa infatti l’identità italiana al “sangue” e alla “razza” nella misura in cui i legami di parentela di alcune generazioni di emigrati sono permanenti condizioni di cittadinanza. Chi non parla italiano e forse nulla conosce del paese, può partecipare alle elezioni politiche per il parlamento italiano. Ma i figli nati e cresciuti in Italia da residenti stranieri devono aspettare la maggiore età per richiedere la cittadinanza e l’esito non è scontato.

Osserva con acume Patriarca che gli estensori della legge del 1992 intendevano garantire ai discendenti di italiani di essere «cittadini della Comunità europea».

«In realtà il dibattito che ebbe luogo in Senato nella primavera di quell’anno rivela che le decisioni relative alla naturalizzazione furono influenzate dall’ostilità verso l’immigrazione dai paesi extraeuropei».

La legge rendeva più difficile per i residenti non europei diventare cittadini italiani. E nel 2015, la proposta per facilitare l’acquisizione della cittadinanza a quasi un milione di figli di immigrati nati in Italia si è arenata al Senato dopo l’approvazione alla Camera. A giudicare dall’impennata dei partiti xenofobi e dal loro gradimento al pubblico, sembra di poter concludere che non vi è nel nostro paese la volontà di sanare un vulnus grave di esclusione e di discriminazione.

Dice Patriarca che fino a quando «gli italiani bianchi non abbandoneranno la concezione etnorazziale dell’identità nazionale, coloro che non sono conformi alla “norma somatica” della nazione continueranno a subire qualche forma di emarginazione, discriminazione ed esclusione». Eppure, il nostro paese, come tutti i paesi occidentali, è oggi più multirazziale di ieri, e lo sarà sempre di più. Per questo, una cultura dell’inclusione e lo sforzo consapevole per renderla radicata nella mentalità è prudente e utile oltre che un fatto di giustizia.

Riscrivere la storia della Repubblica «per renderla completa e inclusiva è parte di questo impegno», conclude Patriarca nel suo viaggio attraverso le storie delle persone nate ai margini della “razza bianca” al tempo della guerra di liberazione e che la Repubblica democratica ha lasciato ai margini.

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