Il progetto del governo Draghi così come impostato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella aveva una sola grande incoerenza: il ritorno al governo della Lega sovranista di Matteo Salvini che il Quirinale aveva cercato di limitare il più possibile.

Fin dal giuramento del nuovo esecutivo, dal quale Salvini è rimasto fuori, le spinte potenti di riassetto del sistema politico hanno iniziato a favorire l’esito inevitabile: un cambio della leadership leghista che dia rassicurazioni a chi, in patria, all’estero e sui mercati, guarda con preoccupazione al momento in cui i sondaggi diventeranno voti. E il parlamento avrà una maggioranza di centrodestra che si reggerà su Lega e Fratelli d’Italia.

L’intervista di Giancarlo Giorgetti alla Stampa di ieri indica l’accelerazione: Mario Draghi deve andare al Quirinale per legittimare un nuovo governo di centrodestra affidabile perché inserito in una dinamica quasi presidenziale, uno scenario nel quale «Draghi diventerebbe De Gaulle».

Giorgetti non è solo il vicesegretario della Lega, l’unico dirigente che ha attraversato tutte le sue stagioni sempre in posizioni di vertice, è anche il ministro dello Sviluppo economico e l’interlocutore più cercato da imprenditori e investitori. Uno che Draghi stima e del quale si fida: impossibile pensare che Giorgetti abbia espresso con simile nettezza opinioni e idee non anticipate prima al premier.

Molti parlamentari auspicano una permanenza di Draghi a palazzo Chigi per realizzare le riforme abbinate ai fondi europei del Pnrr e, soprattutto, far durare la legislatura fino al 2023. Ma Giorgetti lascia intendere che c’è un interesse superiore: quello che l’Italia abbia un governo legittimato da sotto (dagli elettori) e da sopra (dall’Europa, dagli Stati Uniti, dai mercati). E perché questo accada Draghi deve passare da palazzo Chigi al Quirinale.

In questo scenario il Partito democratico di Enrico Letta è ridotto al ruolo di spettatore. Effetto di una mancanza di strategia che ha portato Letta ad auspicare la permanenza di Draghi alla guida del governo anche dopo il 2023.

Non ci mancherà

L’indagine per droga sull’ex social media manager di Salvini, Luca Morisi, è una di quelle coincidenze che condensano lo spirito del tempo: la macchina della propaganda digitale della Lega sovranista non esiste più, Salvini perde la sua potenza comunicativa quasi come è successo a Donald Trump, imbavagliato su Twitter dopo l’attacco al parlamento. E senza social, cosa resta della leadership di Salvini?

Le elezioni amministrative saranno il colpo finale: con miopia tattica, Salvini le ha usate per misurare i rapporti di forza con Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia, invece che per imporre strategie e candidati vincenti. Col risultato che praticamente nessun risultato potrà permettere a Salvini di esultare.

Ci sarà tempo e modo di preoccuparsi di questa possibile svolta presidenzialista surrettizia dell’Italia, sull’asse Lega-Draghi. Ma ricordiamo cosa è stato il salvinismo, con le campagne per gli assassini che sparano ai ladri, l’indifferenza per i morti nel Mediterraneo, l’accanimento sui sopravvissuti alla traversata, la guerra alle Ong, le battaglie contro i diritti e a difesa del pregiudizio. Che tutto questo stia finendo è decisamente una buona notizia.

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