La privatizzazione della campagna elettorale indica che i partiti sfruttano il periodo pre-voto per contendersi il consenso dell’establishment, non quello degli elettori. Guardate la sequenza dei confronti pubblici tra i capi-partito: passate le vacanze, si comincia con il meeting di Comunione e liberazione, poi si prosegue al forum di Cernobbio.

Non si tratta di vere interviste pubbliche, i contenuti sono irrilevanti, tanto che la performance è misurata come in un talent show dall’applausometro (almeno nei talent ci sono i temuti “giudici”, nei dibattiti elettorali manco quelli).

Lo spazio in cui avvengono queste discussioni è quello di convegni di gruppi organizzati portatori di interessi particolari: la presenza dei leader da Cl certifica la rilevanza di Cl, non quella dei politici partecipanti.

Nel caso di Cernobbio, è un fenomenale spot per la società di consulenza European House – Ambrosetti, organizzatrice dell’evento: in Italia esibire relazioni con la politica conta molto più di saper davvero dare consigli strategici.

Nei confronti televisivi c’è sempre il rischio (raro) di domande impreviste, di una gaffe, di un incidente. In queste tavole rotonde no, ognuno fa il suo piccolo spot, nessuno polemizza, neppure gli altri leader.

Di solito a moderare c’è il direttore di un grande giornale, che diventa di quel dibattito la cassa di risonanza, vestendo da notizia un evento di lobbying (o networking, a essere ottimisti).

A completare la confusione, c’è che i leader poi cercano di intervenire sugli stessi giornali dei moderatori: vedi Giorgia Meloni che ormai a ogni editorialista del Corriere della Sera risponde con editoriali di pari dignità e collocamento, ben visibili in prima pagina.

E poi c’è la parte invisibile della campagna: gli incontri con le banche d’affari, con gli hedge fund che comprano il debito pubblico, gli elettori sono contemplati soltanto come spettatori (passivi) di una comunicazione social che viene preferita a quella tv e perfino a quella dei giornali perché priva di mediazioni.

 Non è una coincidenza che il politico di maggior successo su TikTok sia Silvio Berlusconi: sono trent’anni che pensa che il consenso si conquisti con monologhi senza domande inseriti in mezzo a contenuti di intrattenimento pensati per intorpidire il cervello e renderlo più ricettivo alla manipolazione.

In questa campagna elettorale tutta chiusa nel perimetro dell’establishment, non esistono più gli elettori. Ma neppure esiste più la società civile: la Chiesa è silente, i sindacati pure, gli intellettuali non riescono a trovare un piano di comunicazione con partiti che hanno abbracciato la diffidenza per la cultura pubblica un tempo tipica solo della destra più qualunquista.

D’altra parte, che interlocuzione si può avere con un Enrico Letta che discetta di guanciale o pancetta nella parodia della sua stessa comunicazione politica, o con Carlo Calenda che insulta e blocca gli utenti Twitter sgraditi?

La campagna elettorale privatizzata serve forse alle ambizioni di Giorgia Meloni, che vuole rassicurare l’establishment senza spaventare gli elettori, ma va soprattutto a beneficio del primo partito italiano. Quello degli astenuti.

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