Macron che propone in autonomia un intervento europeo in Ucraina, Scholz che contraddice gli alleati sull’invio a Kiev di missili a lungo raggio, e poi paesi che rigettano gli accordi sul clima sottoscritti poco prima. Per non menzionare quelli che stracciano i trattati sulla non proliferazione delle armi nucleari dopo aver calpestato ogni proposito di pace. L’era della cooperazione internazionale sembra ogni giorno più distante e, per comprenderne le cause, studiare la storia non sembra essere più sufficiente: è necessaria la logica scientifica.

L’aveva ben compreso John Nash, il matematico che trascorse la sua intera carriera a studiare come le dinamiche di collaborazione siano determinanti tanto per l’economia quanto per la geopolitica. Il suo teorema più celebre dimostra come un equilibrio di cooperazione sia vantaggioso per tutti quando nessun attore ha, da solo, interesse a cambiare strategia.

Un enunciato reso celebre e palese dal «dilemma del prigioniero»: a due individui sospettati di un crimine e interrogati separatamente viene chiesto di confessare chi, tra loro, sia il colpevole. Se nessuno dei due parlerà, il giudice potrà condannarli solamente a una punizione lieve. Al contrario, se uno dei due scegliesse di tradire l’altro, si guadagnerebbe l’immunità per aver collaborato, mentre al socio toccherebbe il massimo della pena. Infine, se entrambi decidessero di accusarsi a vicenda, verrebbero ritenuti ambedue colpevoli. Voi che fareste?

Il dilemma del prigioniero

Per oltre 50 anni i paesi occidentali hanno optato per la mutua solidarietà della prima opzione. La “pace democratica” si declinava proprio sul principio per cui è auspicabile erigere le proprie relazioni sulla base di una collaborazione reciprocamente vantaggiosa, anziché su una competizione inevitabilmente deleteria. Ma “l’equilibrio di Nash” non è valso solo al di qua della cortina di ferro.

La stessa logica della guerra fredda era fondata sul presupposto per cui anche il malfidato “complice” ad di là del muro fosse sufficientemente razionale da non voler avanzare mosse troppo azzardate. Si trattava di un criterio funzionante perché “saturo”: l’equilibrio era il modus operandi scelto da tutti quanti, nella convinzione che uscire dal coro sarebbe stato molto più pericoloso che rimanervi.

Ma nel momento in cui, dalle macerie del Muro di Berlino, è emersa la globalizzazione, si sono iniziate a tessere relazioni con realtà nuove, non necessariamente disposte a seguire la medesima logica.

La guerra in Ucraina ha dimostrato in maniera tragica come chi rompe per primo lo schema cooperativo finisca, come predetto da Nash, per godere matematicamente di un vantaggio comparato, a danno di tutti gli altri. Di fronte a ciò, nessun tacito patto di collaborazione sembra più affidabile: che si tratti di ignorare gli impegni concordati globalmente sulle emissioni di CO2, o le normative contro lo sfruttamento della mano d’opera a basso costo, non è più un tabù tradire il vicino in funzione del proprio interesse.

Il tradimento dei patti

È un calcolo che sembra sedurre sempre più attori politici anche di casa nostra, mettendo in crisi dall’interno dei nostri sistemi la logica di cooperazione che è alle fondamenta di Unione Europea e Patto Atlantico: una vera “cultura della non-collaborazione”, trasversale a popoli e politica, e che trova nel nazionalismo la sua manifestazione più evidente. Le conseguenze di tale approccio sono note a tutti: pensare solo al proprio vantaggio attaccandoci l’un l’altro rischia di condannarci tutti a una pena atomica.

Una partita differente

Se dunque non possiamo essere tutti “non-collaboranti", l’unica salvezza è convincere chi sta correndo in proprio a riconsiderare la cooperazione. Ma come? Di certo non escludendolo: il campo di questo “gioco” è il mondo intero, da cui non abbiamo la facoltà di espellere nessuno.

L’unica strada possibile sarebbe quella di provare a giocare una partita differente, magari con regole nuove, capaci di indurre ogni concorrente a riconoscere un vantaggio nello sviluppo di strategie collaborative. Uno sforzo che ci obbligherebbe a confrontarci con chi ci ha “traditi”, ma che ci dimostrerebbe come persistere con la cooperazione sia l’unico calcolo strategico plausibile.

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