«Per noi della vita conta solo il feto dal primo giorno, il parto e prima de morì, in mezzo ce sta un grandissimo chissenefrega»: così sentenziava Padre Pizzarro, memorabile personaggio televisivo di Corrado Guzzanti.

Si potrebbero liquidare con questa ironia, feroce e amarissima, le dichiarazioni d’esultanza della galassia pro life seguite alla sentenza della Corte Suprema americana che abolisce la tutela giuridica dell’interruzione di gravidanza a livello federale. È stato affermato «il diritto alla vita», dicono. Ma quale vita? La vita di chi?

È la stessa domanda che bisognerebbe porre a Giorgia Meloni, che qualche giorno fa dal palco di Vox in Spagna inneggiava alla «cultura della vita» contro quella della morte.

Cos’è questa cultura che le destre, da occidente a oriente, sostengono di difendere dalla minaccia del progressismo dei diritti? Si può parlare di “vita”, quando la sua portata semantica si riduce al tempo breve del principio e della fine, mentre tante “vite”, al plurale, sono rigettate nell’indifferenza?

Intorno a questo tema oggi si combatte una battaglia epocale. Da una parte ci sono le vite che “non contano” e chiedono di essere viste, ascoltate, protette.

Si pensi ai movimenti femministi contro il femminicidio, allo slogan Black Lives Matter contro la violenza della polizia, o alle molte iniziative di Ong che lavorano per mettere in salvo le vite dei migranti che sfidano la durezza delle frontiere.

Dall’altra, ci sono gli avversari di queste battaglie, che inneggiano alla sacralità della vita, al singolare.

Ora, nella discussione sul destino del diritto all’aborto negli Stati Uniti, o in Italia, è proprio di questo che dovremmo parlare.

Vite sacrificate

Perché porre l’enfasi solo sulla dimensione della scelta individuale rischia di non essere sufficiente nello scenario che l’attivismo antiabortista sta disegnando.

Un tema cruciale è il sacrificio di vite, vite di donne, in particolare di donne povere, razzializzate, marginalizzate, che questo fondamentalismo è orientato a provocare.

A questo proposito la saggista Jia Tolentino, sul New Yorker, ha invitato a rovesciare il senso dello slogan femminista di resistenza «We won’t go back», non torneremo indietro.

È vero, scrive, il futuro non somiglierà al passato che precedette la sentenza Roe v. Wade, ma sarà peggio.

Perché nel frattempo l’accesso ai dati sanitari, i dispositivi di sorveglianza e le possibilità aperte dalle leggi antiabortiste hanno già trasformato la gravidanza in un’esperienza di cui le donne, e qualunque persona presti loro assistenza, rischiano di rispondere penalmente in tutti i casi in cui qualcosa non va per il verso giusto.

«Alcune delle donne che moriranno a causa del divieto di aborto sono incinte proprio adesso.

Le loro morti non saranno causate da procedure clandestine, ma da una silenziosa negazione delle cure: interventi ritardati, desideri disattesi.

Moriranno di infezioni, di pre-eclampsia, di emorragia, mentre saranno costrette a sottoporre i loro corpi a gravidanze che non hanno mai voluto portare avanti».

Al contempo, la paura delle conseguenze finirà per mettere in pericolo persone che vogliono portare a termine la gravidanza ma che incontrano problematiche mediche.

Tutto questo è già realtà in alcuni stati degli Usa. Anche in Italia un’interpretazione distorta dell’obiezione di coscienza mette a rischio la vita delle donne, non solo negando l’interruzione di gravidanza, ma anche negando le cure in casi di complicazioni.

Eppure, se dal 1978 abbiamo una legge, la legge 194, che tutela la facoltà delle donne di scegliere sul proprio corpo, è anche perché la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 27 del 1975, ha fissato un principio fondamentale: «non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare».

È in base a questa non equivalenza che è possibile difendere, sul piano giuridico e politico, l’interruzione di una gravidanza in circostanze in cui – recita la 194 – «la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica».

Resta da chiedersi quindi se il discorso delle destre politiche e religiose che oggi teorizzano la personalità del feto, e attaccano per il suo tramite la salute delle donne, sia compatibile con i requisiti di uno stato di diritto democratico.

Uno stato in cui sia rispettata e resa effettiva l’uguaglianza tra i generi, in cui tutte le “vite”, al plurale, siano considerate degne di protezione.

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