Nell’epoca dei social tutti hanno l’illusione di essere informati e quindi nessuno parla più di informazione, tranne i politici. Che invece sanno bene che chi controlla l’informazione controlla il consenso. In questa coda di campagna elettorale una destra che si è strutturata nell’alveo del conflitto di interessi televisivo di Silvio Berlusconi rivela la sua natura, e conferma l’ipocrisia di un sistema di regole strutturato per garantire la lottizzazione e la manipolazione invece che un’informazione onesta e libera.

Prima il leader della Lega Matteo Salvini propone di abolire il canone della Rai: una idea ingiudicabile, perché può comportare un risparmio per il contribuente (se la Rai viene chiusa e smantellata) o un aggravio, se il costo sale ma non si vede perché mischiato con le altre tasse.

Già ora il canone Rai è una tassa mascherata e regressiva, nel senso che tutti pagano 90 euro in dieci rate nella bolletta elettrica: una specie di flat tax che il campione della flat tax vuole abolire.

Appena lanciata la proposta – che forse era solo l’idea di toglierlo dalla bolletta, per poterlo evadere meglio – ecco che la destra trova un argomento contro la Rai: l’intervista al filosofo francese Bernard Henry Lévy nella trasmissione condotta da Marco Damilano su Rai3, il Cavallo e la torre.

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 25-08-2022 Roma (Italia) Spettacolo Rai - Presentazione della trasmissione “Il cavallo e la torre” Nella foto Il conduttore Marco Damilano 25-08-2022 Rome (Italy) Entertainment Rai - Presentation of the program “Il cavallo e la torre” In the pic Marco Damilano

Damilano, che collabora con questo giornale e cura il mensile Politica ora in edicola, ha anche preso le distanze dai commenti del filosofo. Lévi ha detto che se la volontà popolare porta al potere dittatori, non va rispettata (espressione ambigua, ma difficile da contraddire in un paese fondato sulla resistenza antifascista).

Il conduttore perimetra la provocazione di Lévy e chiarisce che, per fortuna, in Italia nessun partito mette a rischio le libertà democratiche. Più chiaro di così. Ma i giornali di destra rilanciano dichiarazioni indignate, si parla addirittura di dimissioni dell’amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes.

Che l’Agcom, sedicente autorità di garanzia delle comunicazioni, se la prenda con Damiano contestando «la condotta del conduttore» perché non sufficiente a «a ricondurre il programma entro i limiti della correttezza e del rispetto dei principi sopra richiamati» è paradossale.

Il Pd, invece di limitarsi a contestare ogni interferenza in un programma di informazione, richiede ulteriori interferenze a tutela del Pd, vittima di “dei casi di informazione parziale, scorretta e non veritiera in alcuni telegiornali dell’emittenza privata contro il Pd e il segretario Letta” (ma come parlano? Emittenza?).

Le bizantine regole della par condicio sono pensate per non essere rispettate (tempi di parola, tempi di notizia ecc.).

Uno dei leader in campo, Silvio Berlusconi, controlla tre televisioni, il confronto a due tra Enrico Letta e Giorgia Meloni si è rivelato impossibile in Rai, ma si è svolto ugualmente sul sito del Corriere della Sera (ma che differenza c’è?), c’è il divieto di divulgare i sondaggi ma non di farli, col risultato che noi giornalisti li vediamo, ne teniamo conto nello scrivere gli articoli ma dobbiamo nasconderli al lettore e così via, in un reticolo di norme assurde che hanno l’obiettivo di massimizzare l’influenza sull’informazione, non certo la sua indipendenza.

Regole impossibili e discrezionali sono la premessa dell’arbitrio assoluto del decisore. Che può vedere lo scandalo in una intervista come tante ma non nel fatto che alcuni giornalisti, il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano ma non solo, partecipino addirittura alle conferenze programmatiche di Fratelli d’Italia. E’ la cultura della libertà di stampa del berlusconismo. E ora sta per tornare al potere.

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