«È il solito settembre che si scioglie/ nel suo vicino ottobre, non doveroso caldo / ma una luce argentata che sorprende. / Ancora le stagioni hanno potere / se anche gli indaffarati oggi chiamano / e annunciano che la giornata è bella, / irresistibile...».

Ancora le stagioni hanno potere, nonostante il cambiamento climatico in corso. Ma il solito settembre dipinto da Patrizia Cavalli si scioglie nel 2022 in una insolita giornata elettorale. Insolita perché mai si è vista una elezione politica autunnale nella storia repubblicana e insolita perché il voto arriva al culmine di un processo di desertificazione di cui le cronache riescono appena a cogliere qualche segnale.

Il salto nel voto è un salto nel vuoto. Il Vuoto. È il grande protagonista di questa stagione.

I MOLTI VUOTI

Il Vuoto è, prima di tutto fisico, territoriale. La Spagna Vuota, si intitolava il libro del giornalista spagnolo Sergio del Molino (Sellerio, 2019) dedicato allo spopolamento delle aree interne nel paese iberico nel post franchismo. Similmente negli ultimi anni è avanzato un processo simile da noi. C’è un’Italia vuota, composta dalle periferie urbane e dai piccoli paesi a volte con meno di duecento abitanti, soprattutto nelle regioni meridionali, senza rappresentazione mediatica e senza rappresentanza politica.

«Una nuova geografia del dolore e delle solitudine, perché non si assiste alla fine di questo o di quel paese, ma alla chiusura di un mondo e allo stravolgimento irreversibile di paesaggi, di economie, di culture, di sistemi economici, di microcosmi che hanno tracciato il periplo socio-culturale e la storia del Mediterraneo», ha scritto Vito Teti in La Restanza (Einaudi, 2022), aggiungendo però che ai fenomeni di svuotamento si affianca «un movimento diffuso, spesso non coordinato, acefalo che collega l’Italia dell’abbandono. Pratiche e scelte di vita tese a costruire una nuova polis».

Auto-organizzazione, comunità che reagiscono senza aspettare un richiamo dall’alto, da un centro che non c’è. Così al nord ci sono le nuove fragilità della post-pandemia e della crisi energetica, «le aree del vuoto antropico, contrapposte alle aree del pieno metropolitano», le ha chiamate Aldo Bonomi (Oltre le mura dell’impresa, Deriveapprodi, 2021): «Gran parte del nord è rappresentabile come un modello sociale intermedio tra l’alto della grande città e il basso del margine, una provincia urbanizzata e industrializzata», con il rischio continuo di scivolare verso l'area del disagio.

Il Vuoto è, poi, economico e sociale. Parla di un paese che da tempo ha smarrito la sua dimensione industriale e si trastulla in una vocazione turistica, senza neppure abbracciarla davvero.

L’ultimo caso è quello della finlandese Wärtsilä e dei 450 licenziati a Trieste, in un’azienda che attraversa due secoli, dalla Sant’Andrea dell’Impero austro-ungarico ai Grandi Motori dell’Iri, alla cessione verso la multinazionale che oggi se ne va. È la storia del nostro sistema industriale. Nazionalizzazione, privatizzazione, delocalizzazione. Un panorama di eccellenze in declino, di decadenze, di dismissioni. Non decise, ma subite come scelte altrui. Un paesaggio che si svuota.

Il Vuoto, infine, è politico. La campagna elettorale del 2022 sarà ricordata per la povertà dei messaggi. Una campagna elettorale disabitata: di pensieri, leadership, capacità di mobilitazione del paese.

Nei sondaggi non si è mai abbassata la quota di chi dichiara di volersi astenere o non partecipare al voto, un numero che si avvicina al 40 per cento. Non importa il dato finale, in ogni caso è di gran lunga il primo partito italiano, il partito degli scontenti, dei disillusi, i rassegnati, i non-rappresentati, sentimento massiccio anche tra chi, alla fine, depositerà la scheda nell’urna.

Non è solo l’effetto di una surreale corsa al voto balneare. E neppure dello sciagurato taglio dei parlamentari senza riforma elettorale. È un processo che ha radici lontani e non è diverso da quello che ha attraversato gli altri paesi europei. Il Vuoto elimina in modo definivo ogni anomalia. Semmai l’Italia è un acceleratore di fenomeni che altrove sono più lenti e graduali.

1975, quando tutto è cominciato

AP Photo

Il Vuoto cominciò, inaspettato, in un anno che tutto sembrava cambiare. La parola era nel più famoso articolo di Pier Paolo Pasolini, passato alla storia come quello sulla scomparsa delle lucciole, che il Corriere della Sera di Piero Ottone pubblicò il 1° febbraio 1975 con il titolo “Il vuoto del potere in Italia”.

«In Italia c’è un drammatico vuoto di potere. Non un vuoto di potere legislativo o esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale, né, infine, un vuoto di potere politico in un qualsiasi senso tradizionale. Ma un vuoto di potere in sé», scriveva Pasolini. Un’intuizione poetica e politica. Il problema non era l’occupazione del potere, come si intitolava il libero del politologo cattolico Ruggero Orfei, ma l’opposto, il ritrarsi del potere dalle sue responsabilità, l’avanzare del deserto. Che la società provava a colmare come può, in modo scomposto, caotico, confuso, pericoloso.

Era il 1975. Anno di crisi economica, trame nere, stragi familiari. Spostamento, come si diceva all’epoca, del mondo, dell’Europa, dell’Italia: a sinistra. L’anno dei trent’anni dalla Liberazione. Trent’anni di democrazia.

L’11 gennaio di quell’anno la Chrysler e la Ford annunciarono la chiusura dei loro stabilimenti negli Stati Uniti, con 85.175 lavoratori. Il giorno prima la Fiat aveva messo in cassa integrazione i primi 65mila operai: per tredici giorni, con il 93 per cento dello stipendio. «Il 1975 si avvia a diventare il peggiore anno del dopoguerra», comunicò il presidente della Fiat Gianni Agnelli agli azionisti. Il primo agosto la Fiat chiuse la produzione della Cinquecento: costava troppo e non reggeva la concorrenza.

Nel mondo era l’anno della stagflazione, parola ignota per fotografare la convivenza perversa tra inflazione e recessione, l’anno del primo vertice dei sette grandi, nel castello di Rambouillet, alle porte di Parigi, convocato dal giovane presidente francese, il tecnocrate Giscard D’Estaing, il primo tentativo di governo mondiale dell’economia, c'era l'Italia con il trio democristiano Aldo Moro-Mariano Rumor-Emilio Colombo. Il 30 aprile gli ultimi americani lasciarono precipitosamente il Vietnam, in «una cortina di silenzio più cieco del buio, più freddo del marmo, più squallido della delusione», annotò sull’Europeo Oriana Fallaci.

In Italia il 1975 fu l’anno dell’Oscar a Federico Fellini (il quarto, con Amarcord) e del Nobel a Eugenio Montale. L’anno del massacro del Circeo, i bravi ragazzi dei Parioli che seviziarono e abbandonarono in un bagagliaio Rosaria Izzo e Donatella Colasanti. L’anno dell’esordio cinematografico del ragionier Ugo Fantozzi, con il volto del suo inventore Paolo Villaggio, con il suo scenario futuribile già post-industriale, senza politica e senza sindacati, faccia a faccia dipendente-mega direttore galattico, e di Amici miei di Mario Monicelli, uscito nelle sale il giorno di ferragosto. Il 14 aprile il parlamento approvò la legge di riforma della Rai-Tv e aprì alle tv private che si stavano moltiplicando: qualche mese prima erano cominciate le trasmissioni via cavo di Telemilano del giovane costruttore Silvio Berlusconi. Negli stessi giorni 4 aprile il Consiglio superiore delle telecomunicazioni aveva scelto il sistema tedesco Pal anziché il francese Secam per la tv a colori che l’Italia userà dal 1977.

Il colore e il piombo. Manifestazioni di protesta, assalti, la p38 estratta con facilità a Roma e a Milano, nei cortei dei rossi e dei neri. Morti, tanti morti. L’odore acre dei lacrimogeni, il sangue per le strade nelle foto in bianco e nero una macchia scura allargata sotto i corpi.

Piombo e colore si intrecciavano nelle celebrazioni per il trentennale della Resistenza. Più che sulle speranze l'accento andava sulle promesse mancate, sui tradimenti e i traditori. La Repubblica italiana appare «tumultuaria», denunciava la Stampa. Nell’estate l’opera più ambiziosa, Intervista al fascismo di Renzo De Felice pubblicata da Laterza. «Il fascismo ha fatto infiniti danni, ma uno dei danni più grossi e stato quello di lasciare in eredità una mentalità fascista ai non fascisti, agli antifascisti, alle generazioni successive. Una mentalità di intolleranza, di sopraffazione ideologica, di squalificazione dell’avversario per distruggerlo», affermava lo storico, scatenando le polemiche.

«Inutile usare perifrasi: ci troviamo per la prima volta in maniera chiara e univoca dopo il 1945 di fronte a una completa riabilitazione del fascismo, compiuta da uno storico che non è di origine fascista, che occupa una cattedra nell’università di Roma e pubblica i suoi libri presso due tra le maggiori case editrici della sinistra italiana (Einaudi e Laterza)», si indignò Nicola Tranfaglia sul Giorno.

Stanchezza. Disillusione. Disincanto. I padri della Repubblica delusi, estenuati. Eppure mai in come quell’anno la sinistra appariva forte, impetuosa. A un passo dalla conquista del potere. Una scarica di energia provocata dal voto ai diciottenni, nati e cresciuti nel decennio bello della vita repubblicana. Intercettata dal leader del Pci, «il pirata di neve dolce», come lo chiamò il biografo Vittorio Gorresio. Enrico Berlinguer, chiamato a navigare tra gli scogli dell’eurocomunismo, il compromesso storico, l’incontro impossibile con il partito cattolico. Tra l’eterna contraddizione comunista dell’attesa di una palingenesi annunciata e della moderazione nei comportamenti.

In quel 1975 il Pci si trovò come mai più succederà nel punto della storia in cui le aspirazioni contrapposte si incrociavano: era il partito più partito di tutti, la politica, lo stato nello stato, e insieme il suo elettorato si gonfiava di rivendicazioni, proteste, aspirazioni al cambiamento che esprimevano pulsioni di rivolta radicate nella società italiana, l’anti-politica.

Il Pci era il partito dell’alternativa, ma aspirava a incarnare la nuova classe dirigente. Desiderava rivoltare il sistema e insieme era l’architrave del sistema che fino a quel momento si era fondato sul partito-stato, la Democrazia cristiana.

Per l’Italia democristiana sembrava arrivata la fine, dopo la sconfitta dell’anno precedente al referendum sul divorzio. Un anno di batoste elettorali e di oscuri presagi, annunci di morte. In quei mesi il regista Elio Petri girava il film più crudo, tratto dal romanzo di Leonardo Sciascia un anno prima. L’atmosfera livida, gonfia, violacea, suore con l’aspirapolvere, telecamere, catacombe, scheletri, piedi nudi scheggiati.

L’epidemia, le fruste, le piaghe, la contrizione, il peccato senza speranza, senza assoluzione, senza Dio. I volti del potere, maschile, decrepito, grottesco. Todo Modo: il ritratto soffocante di «una forza senza forza, un potere senza potere, una realtà senza realtà». Come aveva scritto Sciascia nel suo libro: «Ministri, deputati, professori, artisti, finanzieri, industriali: quella che si suole chiamare classe dirigente. E che cosa dirigeva in concreto, effettivamente? Una ragnatela nel vuoto».

La fotografia più imprevedibile del vuoto arrivò da un uomo che le stanze del potere le frequentava da sempre. Aldo Moro leggeva nel consenso verso il Pci un voto contro il caos: «Il nuovo elettorato comunista non si colloca tutto, ideologicamente, nell’area comunista». Una pagina si è chiusa per sempre per la Dc, «l’avvenire non è più, in parte, nelle nostre mani». Ma la crisi della politica, il vuoto di potere, non riguardava solo il partito-stato.

«È in atto infatti quel processo di liberazione che ha nella condizione giovanile e della donna, nella nuova realtà del mondo del lavoro, nella ricchezza della società civile, le manifestazioni più rilevanti ed emblematiche. Questo è un moto indipendente dal modo di essere delle forze politiche, alle quali tutte, comprese quelle di sinistra, esso pone dei problemi non facili da risolvere. Questo è un moto che logora e spazza via molte cose e tra esse la “diversità” del Partito comunista. Esso anima la lotta per i diritti civili e postula una partecipazione veramente nuova alla vita sociale e politica. È un fenomeno che può essere anche, per certi aspetti, allarmante, ma è senza dubbio vitale ed ha per sé l’avvenire». Il grande cambiamento si sarebbe rovesciato addosso anche ai vincitori.

Il 1975 è stato l’anno spartiacque della storia repubblicana. L’anno in cui il sistema politico e democratico è entrato in crisi, senza più riprendersi. L’anno della grande crisi di legittimità del potere. Politico, sindacale, economico. Una frattura che da allora in poi non sarà più colmata. Alla fine dell’anno, la notte tra il 31 ottobre e il primo novembre, Pasolini fu massacrato sul litorale di Ostia. Il vuoto della politica diventerà progressivamente vuoto di rappresentanza, di produzione, di cultura. Un vuoto destinato ad addensarsi.

Governare il vuoto

AP Photo/Gregorio Borgia

Governare il vuoto è il titolo di un libro del politologo irlandese Peter Mair, scomparso a soli 60 anni nel 2011. Il libro fu pubblicato in Italia da Rubbettino in un momento particolare, il 2016.

Al referendum sulla Brexit mancavano poche settimane, alla fine dell'anno si sarebbe votato per il presidente Usa, la scelta tra Hillary Clinton e Donald Trump. Nel libro di Mair erano già contenuti tutti gli elementi degli anni successivi.

La strategia dell’indifferenza verso la politica e ancora di più verso la democrazia. Che è l'atteggiamento dell’opinione pubblica che si muove nel vuoto, più della rabbia o della disillusione o del disincanto, più di una ostilità aperta: il senso di una inutilità. «Al suo crescere», scrive Mair, «hanno contribuito anche la retorica utilizzata dai politici alla fine degli anni Novanta e il crescente sentimento anti-politico che caratterizzava la letteratura specializzata», il dibattito pubblico. Esempio (a sorpresa), Tony Blair che nel 2000 dichiarò alla Bbc: «Non sono mai stato veramente dalla parte della politica. Non mi sono formato come politico, non mi ci sento neppure ora».

La conseguenza è stata la formazione di una democrazia senza demos. Invece di incoraggiare una maggiore partecipazione dei cittadini alle decisioni il coinvolgimento popolare è stato scoraggiato. In molti modi. Per esempio con l’idea che le elezioni contassero di meno e che le assemblee elettivi, i parlamenti, fossero il regno della casta, del privilegio e dell'indecisione. Ma la svalutazione delle elezioni ha portato a un risultato paradossale.

Negli anni Dieci del secolo la minore partecipazione elettorale ha coinciso con più instabilità elettorale, a differenza di quanto avveniva nel passato. Partiti nuovi, nati in poco tempo e spesso con una forte spinta anti-politica, sono riusciti ad avere più successo e hanno messo a dura prova i partiti e le alleanze tradizionali: il Movimento 5 stelle nel 2013 e nel 2018 è un caso di scuola.

L’altro effetto è stato il distacco delle élite. Le distanze dei partiti tradizionali sono diminuite tra loro, quelle tra i partiti e la società sono aumentate. «La democrazia europea era sinonimo di democrazia dei partiti e governo europeo sinonimo di governo di partito», scriveva Mair. Quando l’età dei partiti è finita i leader si sono sempre più sentiti come i «rappresentanti del governo nella società» piuttosto che «voce della società nello stato».

Si sono orientati verso il governo, la presenza nelle istituzioni e nel governo, come unica finalità e motivazione del loro agire. È venuto meno il governo di partito ed è stato sostituito dal partito del governo. Che spesso è anche, come nel caso italiano, il partito dei tecnici al governo.

Infine l’Europa: il conflitto politico su scala contentale è stato svuotato perché non c’è un demos europeo, non ci sono partiti europei, che dovevano esistere laddove era più importante che ci fossero. L’Unione europea che prende le decisioni sulla base di organi non eletti dai cittadini è diventata alla metà degli anni Dieci il palcoscenico ideale contro cui lanciare l'assalto populista e sovranista.

La ricostruzione della politica

Supporters of Five-Star Movement (M5S) attend the party's final rally in Rome, Friday, March 2, 2018. General elections in Italy will be held Sunday. (AP Photo/Andrew Medichini)

La stagione breve del governo Draghi ha accentuato in Italia questi fenomeni. È stato il tentativo più ambizioso (e riuscito) di governare il vuoto. Il vuoto della politica nell’ultima legislatura, quando in assenza di confini precisi e di identità certe tutti i partiti si sono alleati con tutti (con l’eccezione di Fratelli d’Italia). Il vuoto tra il governo e la società, testimoniato anche dagli eventi dell'estate 2022, quando l’ex banchiere centrale divenuto premier ha affrontato il Senato alzando la voce: «Siamo qui, sono qui, solo perché gli italiani me lo hanno chiesto. Questa risposta non la dovete dare a me, la dovete dare agli italiani». La risposta, poche ore dopo, è stata la fine della maggioranza di unità nazionale. Tra Draghi e la società, tra il presidente del Consiglio e gli italiani non c’era nulla, soltanto il vuoto. Né la campagna elettorale è bastata a colmarlo.

Il processo di svuotamento è lungo, data quasi mezzo secolo, e non è un fenomeno soltanto italiano, anche se in Italia ha assunto forme di particolare gravità. Perché in Italia il sistema rimasto senza politica è venuto giù su tutti gli altri versanti, a partire da quello economico, per finire a quello culturale. E oggi che il tema centrale di ogni paese è la ricostruzione dello stato nazionale, nel contesto dell’Europa, l’Italia arriva in condizione di straordinaria fragilità.

Le risposte cercate finora si sono rivelate tutte deboli. Debole l’idea di partiti senza potere, come in fondo hanno predicato il Movimento 5 stelle e i sovranisti di ogni fattura. Debole anche l’idea che ha fatto da sfondo al governo Draghi, il premier senza partito, con i partiti che all'inizio della campagna elettorale hanno provato ad agitare una sua presunta agenda, senza poterla davvero rivendicare. La crisi di rappresentanza si abbatte così sul governo, la questione democratica inceppa il meccanismo delle decisioni. Senza la ricostruzione della politica non si riempie il vuoto.

La campagna elettorale non solo non ha indicato soluzioni, se non il presidenzialismo agitato dal centrodestra che allargherebbe il vuoto anziché colmarlo. I dibattiti, i faccia a faccia, la propaganda scivolano via, fino alla domenica del voto, con ricette consumate, programmi composti in laboratorio, perfino il riferimento ai problemi reali (le bollette) diventa manierista perché è un modo per non fare i conti con l'assenza di visione.

È stata la campagna elettorale del Vuoto, il Vuoto sarà il vincitore, al di là della fuga degli elettori dalle urne. Il «solito settembre che si scioglie». Poi dovrà tornare la Politica.

© Riproduzione riservata