L’incapacità di Giorgia Meloni di prendere le distanze dal neofascismo è diventata un caso europeo e sta facendo il giro del mondo: gravissima di per sé, mette in seria difficoltà l’Italia al cospetto di tutti i nostri alleati.

Ieri la premier aveva la possibilità di dire finalmente una parola chiara e, invece, ha finito per confermare tutti i dubbi (dubbi che a Domani solleviamo da tempo). Peggiorando le cose, ha tentato di sviare il discorso parlando di economia, ripetendo stime un po’ datate per rivendicare successi inesistenti.

A parte che l’economia non giustifica nessuna ambiguità con il fascismo – ci mancherebbe (è già questa una logica aberrante) – in realtà anche da questo punto di vista le cose stanno in maniera diametralmente opposta a quello che Meloni vuol far credere.

L’Italia sta perdendo capacità industriale in settori strategici fondamentali, come dimostra il fallimento dell’accordo con ArcelorMittal per la ricapitalizzazione dell’ex Ilva di Taranto, la più grande acciaieria d’Europa; o come dimostra il disimpegno di Stellantis da Torino, il cui cuore strategico e produttivo, dopo la fusione tra Fiat Chrysler e PSA, è ormai in Francia.

Ma anche nelle energie rinnovabili, il settore in assoluto più promettente e dove l’Italia avrebbe buone capacità tecnologiche e ottimi vantaggi comparati (grazie al solare, ma anche all’off-shore), noi stiamo scivolando indietro rispetto alle altre grandi economie europee, a causa della totale assenza di una politica industriale da parte del governo, fermo a una visione ideologica novecentesca fondata sui combustibili fossili, fuori dalla storia e dal futuro.

Contemporaneamente, gli errori nella gestione dei dossier europei, dal nuovo Patto di stabilità al no al Mes, lasciano immaginare che da ora in avanti i margini per una politica industriale incisiva saranno ancora più risicati, perché modeste saranno le risorse e non ci si potrà aspettare un grande aiuto dall’Europa.

La crescita che non c’è

Quanto alle previsioni di crescita, ebbene queste sono state riviste al ribasso da tutti gli istituti internazionali, tanto che l’Italia tornerà presto a essere, con ogni probabilità, il fanalino di coda del mondo avanzato. La causa sono proprio le misure adottate dal governo: nella manovra mancano gli investimenti, mentre abbondano le spese dispersive, senza alcuna visione strategica.

Ci sono poi i problemi storici della nostra economia, che pure il governo non fa che aggravare. Uno è il lavoro povero, quasi tre milioni di persone, che si lega a una specializzazione industriale in settori dove la produttività cresce poco: la povertà lavorativa ha un’incidenza, da noi, superiore di circa un terzo alla media dell’Eurozona (12 contro 9 per cento), eppure il governo Meloni si ostina a non volere introdurre il salario minimo.

Contemporaneamente, toglie quel poco di buono che c’era per favorire la crescita dimensionale delle imprese: nell’ultima finanziaria è stata ad esempio abolita l’Ace, l’agevolazione fiscale che premiava chi reinveste gli utili in azienda, una scelta che secondo l’Istat comporterà un aumento delle tasse sulle imprese di oltre il 10 per cento. Con misure come queste, come con la conferma e l’estensione del regime forfettario per le partite Iva, Meloni continua a dare al nostro sistema produttivo gli incentivi sbagliati: restate piccoli, non modernizzatevi. E sperate, magari, nella benevolenza del governo che vi garantirà posizioni di rendita, in cupo isolamento rispetto all’orizzonte cui guarda l’Europa.

Ma alla premier l’Europa interessa poco. Aggrappata a un’idea dell’economia italiana provinciale e stereotipata, che andava in voga peraltro vent’anni fa, reitera ricette vacue e trite (una sorta di «meno tasse per tutti», slogan peraltro smentito dai fatti), che deve aver sentito ai tempi in cui era ministra di Berlusconi (2008-2011), quando l’Italia ballava il bunga bunga sull’orlo del Titanic. Se ne ricordi, la nostra presidente, di come andò a finire allora: ché oggi la nave è meno robusta e la notte si è fatta ancora più scura.

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