Una citazione attribuita a Platone dice che accontentare tutti è una via infallibile per l’insuccesso. Se è così, questa legge di Bilancio, a cui si sono spesso accostate le parole “equilibrio” e “responsabilità”, ha la possibilità di essere un trionfo.

Soddisfare le richieste dell’Europa è costato la delusione di chi si aspettava dal nuovo governo una forte presa di posizione sulle istanze nazionali, ma le critiche arrivano anche da quelle forze che nella coalizione precedente appoggiavano il medesimo rigore dei conti e ora non trovano la manovra abbastanza efficace.

L’incoerenza, però, non è dovuta solo al gioco delle parti insito nella politica e nemmeno al fatto che è oggettivamente difficile scostarsi dalle indicazioni di Bruxelles e Francoforte.

L’esempio dell’effimero governo di Liz Truss nel Regno Unito dimostra che certe regole del mercato e della cultura globale non possono essere facilmente disarticolate, persino correndo da soli.

Il problema che ha afflitto l’approvazione della legge fino all’ultimo secondo del 2022 ha semmai radici più profonde e vanno cercate in una frattura tra il liberalismo e la democrazia che si è progressivamente allargata.

Due sistemi nati per collaborare nel nome di quella “democrazia liberale” che ha permesso all’Occidente di prosperare felicemente e che, tuttavia, nella loro deriva più parossistica, hanno finito per arrivare a scontrarsi.

Le definizioni ci aiutano a capire la dinamica di questa pericolosa evoluzione: ad esempio, possiamo intendere il liberalismo come la tutela del cittadino dal potere assoluto e indiscriminato dello Stato, per accorgerci che, nel tempo, questa forma di protezione si è trasformata in una vera guerra contro ogni vincolo all’individuo.

Un progetto di “dis-ordinamento” culturale e civile assurto come massima espressione di libertà personale.

Dall’altra parte c’è un modello che, all’opposto, ha cercato di dare forma alla convivenza tra identità diverse: la democrazia, con la sua idea di una sovranità popolare scelta in modo non violento da una maggioranza.

Chi perde le elezioni ne accetta il risultato, ottenendo in cambio la tutela della propria libertà di espressione e l’accesso agli strumenti che potrebbero portarla a ribaltare il prossimo risultato nelle urne.

Ma anche la democrazia, giocando sui margini delle definizioni, può arrivare ad estremizzazioni: nel tempo può trasformarsi nella difesa di un primato assoluto della maggioranza.

Un modello sul quale stati come l’Ungheria di Viktor Orbán stanno costruendo un proprio ordine, pur riuscendo a rimanere nella Ue.

In entrambe queste forme parossistiche, democrazia e liberalismo, da locomotive appaiate dello sviluppo, sono diventati due treni lanciati uno contro l’altro, senza che nessuno dei due macchinisti si decida a tirare per primo il freno.

In mezzo è rimasta la politica “tradizionale” che non sa esattamente su quale convoglio salire.

Se accarezza l’idea di democrazia “muscolare” va a collidere contro una cultura di un liberalismo frenetico rimanendo isolata.

Se sale sull’altro convoglio ottiene l’approvazione del mercato globale, ma rischia di schiantarsi contro le aspirazioni nazionali dei propri elettori.

In ogni caso, che scelga o resti ferma, la possibilità che esca malconcia dallo scontro è alta.

Serve una terza via, un ordine diverso che non solo sappia confinare le derive parossistiche, ma conservi le lezioni impartite dalla cultura liberale, dandoci comunque la possibilità di vivere l’identità della nostra democrazia in un mondo globale.

Questo non permetterà sicuramente di accontentare tutti nella prossima legge di Bilancio, ma forse di vedere con più chiarezza il nostro futuro.

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