I nostalgici del duce, le evocazioni della X Mas e un paese che si inginocchia a Rodolfo Graziani, il generale fascista che ha gasato gli etiopi e ministro della repubblica sociale di Benito Mussolini. Tutto questo è successo, dieci anni fa, ad Affile in provincia di Roma quando le destre guidavano la regione Lazio e il parco pubblico in località Radimonte da dedicare ai caduti affilani in guerra si è trasformato nella celebrazione del militare fascista, a cui è stato dedicato un sacrario costruito coi fondi pubblici.

Per quelle scelte sono stati processati per apologia di fascismo l’allora sindaco Ercole Viri e i due assessori Giampiero Frosoni e Lorenzo Peperoni. E la storia ha avuto una coda giudiziaria che ancora non si è chiusa e con un protagonista d’eccezione: l’attuale presidente del Senato Ignazio Benito La Russa, che in questi giorni celebra la storia dell’Msi ed è stato difensore dei due assessori.

L’anno passato la Corte di Cassazione ha depositato le motivazioni della sentenza con cui ha annullato la condanna a carico dei tre e con cui tutto è stato rinviato alla Corte d’appello. Gli imputati hanno potuto contare sulle abilità forensi dell’avvocato La Russa che ha eccepito diversi motivi di ricorso per salvare gli assistiti contestando anche la qualificazione «del Graziani come esponente del fascismo».

La storia ha inizio nel 2008 quando a seguito di una richiesta del comune, la regione Lazio stanziava 50 mila euro, poi successivamente 180 mila euro, per la realizzazione del parco da dedicare all’ex sindaco missino Luigi Ciuffa e di un museo da dedicare al soldato. Nel 2012, però, la giunta comunale, presenti i tre imputati, ha firmato una delibera precisando che il museo sarebbe stato dedicato al generale Rodolfo Graziani.

Francesco Lollobrigida, attuale ministro dell’Agricoltura e all’epoca assessore regionale insieme ad altri esponenti politici di centro-destra era all’inaugurazione: «In questi giorni», disse quel giorno, «ci sono state tante polemiche, troppe chiacchiere.Per noi della Valle Aniene l’affetto per il generale Rodolfo Graziani è stato sempre un punto di riferimento».

I giudici, però, hanno dovuto verificare quanto celebrare Graziani significasse celebrare il fascismo e quindi in particolare due aspetti: il ruolo ricoperto da Graziani nella diffusione dell’ideologia fascista e se le condotte di Viri e dei due assessori «potessero ritenersi forme di elogio, e se potesse ritenersi esistente il carattere della pubblicità dell’esaltazione», si legge negli atti.

Graziani è fascista?

I giudici della corte d’Appello hanno stabilito che «non solo Graziani materialmente e consapevolmente adottò – durante le campagne militari in Cirenaica ed in Etiopia, come dimostrano fonti storiche accreditate – metodologie tipiche del regime mussoliniano, divenendo figura di spicco del medesimo, ma, anche quando tale regime era crollato, decise di rimanergli fedele e di accettare l’incarico, su proposta dell’ambasciatore tedesco Rahn, di divenire ministro della Difesa e capo di Stato maggiore per la Repubblica Sociale italiana, presenziando, in qualità di interlocutore privilegiato, ai colloqui tra Mussolini e Hitler (…) sempre secondo il tribunale, il ritorno del generale sulla scena politico militare nazionale dopo il suo ritiro nel 1941 aveva agevolato la rinascite del regime».

Sull’altro punto la Corte d’appello ha ritenuto ‘esaltative’ le condotte dei tre imputati e l’impossibilità di scindere la figura di Graziani soldato dal Graziani generale.«Il generale aveva aderito non solo ai metodi, ma anche all’ideologia propria del fascismo, di cui rappresentò uno dei più importanti esponenti». Il ministro Graziani, nel 1944, emanò un bando con la chiamata alle armi dei giovani ventenni prevedendo «per i disertori e i renitenti la pena di morte "mediante la fucilazione nel petto”».

Le argomentazioni 

L’avvocato La Russa ha eccepito sulla reale partecipazione degli imputati: i due assistiti hanno firmato la delibera, ma erano assenti all’inaugurazione; inoltre non ci sarebbe stata, secondo il legale, esaltazione di un esponente del fascismo sia perché i due erano assenti, sia per come si è svolta la cerimonia e per assenza di un concreto pericolo di ricostituzione del partito fascista.

L’avvocato La Russa, oggi seconda carica dello stato, ha però contestato anche la qualificazione di Graziani come esponente del fascismo, stando agli atti della Corte di Cassazione: «Dal curriculum militare del Graziani, tratteggiato dalla sentenza di appello, emerge che solo in parte egli può essere ricondotto all’epoca fascista. Ciò varrebbe da solo ad escludere, nel caso di specie, il dolo richiesto dalla fattispecie incriminatrice in discorso.Inoltre, non può nemmeno affermarsi con certezza se Rodolfo Graziani sia o meno qualificabile come esponente del fascismo. Infatti, la sentenza emessa nel 1950 dal tribunale militare riconosce a Graziani di aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale; evidenzia le motivazioni che lo indussero ad accettare l’incarico di ministro della repubblica di Salò, motivazioni indipendenti dalla sua volontà». Insomma, un ministro della repubblica fascista di Salò suo malgrado.

La Corte di Cassazione ha rilevato vizi motivazionali e ha chiesto alla Corte d’appello di valutare se le condotte in esame siano tali «da ingenerare il pericolo di ricostituzione del disciolto partito fascista».

«Il problema è che questo processo si chiuderà perché il reato è ormai prescritto», dice Emilio Ricci, l’avvocato dell’Anpi. L’avvocato del sindaco Viri commenta: «Valuteremo, insieme al sindaco, se rinunciare alla prescrizione. Del resto l’indirizzo dato dalla Corte di Cassazione è chiaro, è un procedimento che si avvierebbe naturalmente verso l’assoluzione per non aver commesso il fatto».

Alla fine gli avvocati degli esponenti politici hanno fatto il loro lavoro, e bene considerando l’annullamento in Corte di Cassazione, di quella giornata ‘nera’ restano le parole di chi ha partecipato all’inaugurazione. E su quelle non serve un giudice.

«Graziani è un esempio per i giovani, di lealtà, di onestà, di attaccamento alla patria, poteva passare con i vincitori, ma lui è rimasto leale e coerente per salvare l’Italia», diceva, dieci anni fa, Ercole Viri, che è ancora sindaco di Affile.

«Ma quali partigiani, ancora i partigiani, erano quattro ruba galline», diceva un cittadino con la nostalgia del ventennio e un altro, alla domanda sull’apologia di fascismo come reato, rispondeva, tronfio: «A me non me ne frega un cazzo». Aveva ragione lui.

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